Uno studio di etologia ha stabilito che anche i lupi, animali considerati fra i più crudeli, praticano fra loro il vicendevole perdono. E l’aspetto più interessante di questa scoperta è che la riconciliazione è indispensabile per la sopravvivenza del branco. C’è, in questa scoperta, una lezione importante. Ciò che alla ragione umana appare come un gesto a volte impossibile, è invece un’esigenza di natura. In altre parole: perdonare non è solo un atto nobile, ma un qualcosa di cui non si può fare a meno.
Stiamo parlando naturalmente del perdono vero, non di quello codificato da legislazioni d’emergenza o di quello banalizzato in tante interviste idiote, quando ai familiari della vittima di un delitto viene messo sotto il naso, a cadavere ancora caldo, un microfono per strappare un ipocrita volemose bene.
Nella storia dell’umanità, il perdono è stato introdotto dal cristianesimo, che ha sostituito la legge del taglione con «l’amate i vostri nemici», il «pregate per i vostri persecutori», il «porgete l’altra guancia». A Simon Pietro che gli chiede stupito fino a quante volte deve perdonare («Fino a sette volte?»), Gesù risponde «fino a settanta volte sette», che vuol dire sempre, senza stancarsi mai.
Tra i comandamenti lasciatici da quel falegname ebreo nel quale i fedeli vedono l’incarnazione di Dio stesso, questo del perdono è il più difficile da mettere in pratica. I lupi, e molti altri animali, perdonano seguendo un istinto che percepisce un’evidenza: ma per noi uomini il perdono è un qualcosa che appare spesso al di fuori delle nostre possibilità; è un atto di eroismo, che non si può compiere una volta per tutte, ma che va rinnovato giorno dopo giorno, con tanta più fatica quanto più profonda è la ferita.
Il perdono ci appare a volte non solo difficile, ma perfino ingiusto. Così, il fratello maggiore si ribella al padre che perdona al figliol prodigo: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito a un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Eppure il padre non vuole neppure sapere perché il figlio minore è tornato: «Quando era ancora lontano, lo vide e commosso gli corse incontro». Nessuna pagina del Vangelo rende in modo più commovente l’immagine della non misurabilità della misericordia di Dio.
Il cristiano è il primo a credere che il perdono sia talmente arduo da essere impraticabile senza un atto di affidamento. È come se dicesse: Signore, io non ce la faccio, il male ricevuto mi brucia dentro, ma so che Tu vuoi che io perdoni, e allora ti chiedo la forza per riuscirci, e ti prego di accettare quel poco che riesco a fare. Il perdono è considerato un gesto soprannaturale, al di là delle nostre povere forze, ma da inseguire e da implorare, perché «la Legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima (...) gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore».
Eppure anche il non credente può sperimentare che il comandamento del perdono corrisponde alle nostre esigenze più profonde. È l’esperienza che dimostra il fallimento della scelta del rancore conservato e alimentato, e ancor più quello della vendetta, un gesto che non dona mai la pace. È l’esperienza a rendere evidente che nessuna società può sopravvivere se accanto alla giustizia non viene praticata anche la misericordia.
Ma c’è un’altra motivazione che può essere colta da ogni persona di retta coscienza, ed è questa: ciascuno di noi ha qualcosa da farsi perdonare, e nessuno di noi può vivere se non viene perdonato. È la presa d’atto della nostra misera condizione che ci può, che ci deve portare a guardare il nostro prossimo con un cuore diverso.
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