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Mitra, violino e pennello. Quante vite per il "solista"

La prima rapina la fece involontariamente. Poi ci prese gusto, ma senza violenza. Simbolo della «mala» di una volta, dopo dodici anni di galera si diede all'arte

Mitra, violino e pennello. Quante vite per il "solista"

Lo chiamavano «il solista del mitra», e quell'appellativo, naturalmente, lo faceva inorgoglire. Ultimo bandito romantico (solo Vallanzasca, dopo di lui, se fosse rimasto quello degli inizi, avrebbe potuto essergli apparentato) Luciano era un buono. Una di quelle facce toste che, viste poi al cinema, suscitano simpatia, desiderio di emulazione, magari un filino di invidia. Riprovazione, mai.
Da buono, addirittura da buonissimo Luciano Lutring è morto, l'altra notte, a 76 anni. Ne ha dato notizia la figlia, alla quale Luciano, in obbligo alla leggenda, ha dato un nome che evoca una raffica: Katiusha. Solista del mitra il padre, katiusha la figlia (Natasha l'altra): un crepitare continuo, in famiglia. Ma così, giusto per fare un po' di scena, senza far male a nessuno. Come sempre.
Bandito, e poi scrittore e pittore di qualche nome, Lutring era un uomo che sarebbe piaciuto a un Manzoni o a un Dostoevskij, nel suo personaggio e nelle sue gesta essendovi tutto quello di cui c'era bisogno per confezionarci uno di quei romanzi di genere: il male e il bene, la caduta e il riscatto.

«Solista del mitra» diventò per il vezzo che aveva di nascondere il mitra -quello con cui compiva le sue leggendarie rapine, negli anni Sessanta- in una custodia di violino. Alberghi a quattro stelle (quelli a cinque ancora non esistevano) belle femmine, champagne, auto vistose erano il suo mondo: quello dei gangster americani, quei «bravi ragazzi» che erano stati il suo mito, la sua fonte d'ispirazione, il suo modello. Era il re della «ligera», la mala milanese, ma aveva la vocazione del gentiluomo. E fu forse questa sua specificità, oltre al lusinghiero percorso di riabilitazione seguito dopo gli anni degli eccessi, a fare di lui un personaggio amato per lunghe stagioni dal pubblico dei rotocalchi.

La scelta di quella custodia di violino, da parte del «solista», non era stata casuale. Violinista era la carriera che i suoi genitori avevano prefigurato per Luciano, ma la «musica» che a quel ragazzo milanese piaceva era un'altra. Cominciò così. «Un giorno mia zia mi chiese di andare a pagare una bolletta alle poste - raccontò in un libro - Io andai. Ma l'impiegato era lento e detti un pugno sul bancone. Nel movimento si vide la pistola che portavo sotto la cintura. L'impiegato credette che fosse una rapina e mi consegnò i soldi. Io pensai: Be', se è così facile…. E me ne andai col bottino».

Quella pistola era una Smith & Wesson della polizia canadese, un vecchio arnese di cui Luciano non aveva neppure il munizionamento. La portava così, per darsi un tono, come un Dillinger in sedicesimo, un Al Pacino ante litteram.

A quel primo colpo ne seguirono centinaia. Così tanti che alla fine, stando a una stima dello stesso Lutring, a mettere quelle banconote una sull'altra si sarebbe arrivati a contare 30 miliardi di lire, qualcosa come una quindicina di milioni di euro. Soldi che consentirono a Lutring di vivere come un Onassis, muovendosi tra Milano e Parigi. Fu qui, a Parigi, che lo beccarono il primo settembre 1965. Uno scontro a fuoco, e una pallottola che ferma per sempre l'ascesa del «nemico pubblico numero 1», come allora veniva chiamato in Italia e in Francia. In carcere però Lutring rimase solo 12 dei 22 anni di reclusione che gli avevano affibbiato. In prigione Luciano lo spaccone era diventato un altro. Leggeva, dipingeva, non dava noia a nessuno. E scriveva. Una volta mandò una lettera all'allora presidente della Camera Pertini. Questi gli rispose, e insomma ne nacque una corrispondenza che gli valse (la simpatia di Pertini, non la corrispondenza) la grazia del presidente della Repubblica francese, Pompidou. E qualche tempo dopo, fatto più unico che raro, quella del presidente italiano Giovanni Leone.

È di quegli anni il film Lo zingaro, ricavato dalla sua autobiografia. Protagonista Alain Delon, bello e dannato, nonché amatissimo dal pubblico femminile.

Ricco, macho, gentleman, generoso (coi soldi degli altri), il fascino tenebroso e perverso di un Fred Buscaglione della mala. Ovvio che le belle femmine cadessero ai suoi piedi. Tra queste, indimenticata fu però solo la Elsa Candida Pasini, una modella valtellinese che usava il nome d'arte di Yvonne Candy. La incontrò a Cesenatico e le rapinò le valigie, ma affascinato dalla sua bellezza finse poi di avergliele ritrovate, il grandissimo facciatosta, solo per conoscerla. Fu il grande amore della sua vita.

Negli ultimi tempi, ha raccontato il suo biografo Andrea Villani, Luciano andava alla stazione di Stresa (lui abitava vicino Verbania) e si figurava di vedere scendere Yvonne da un treno… Perché il «solista del mitra», come si è detto, era un gran romantico….

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