RomaInfinita attesa di tre quarti d'ora per una delle conferenze stampa più brevi della storia politica, una striminzita decina di minuti. Sono le 18.46 quando Mario Monti fa finalmente il suo ingresso nella sala Mascagni dell'hotel Plaza di via del Corso a Roma, nato nel 1857 come hotel «Splendid» della famiglia Lozano, già facoltosi banchieri del Papa re. Quando si dice la combinazione.
Di splendid sono però rimasti più o meno immutati gli stucchi e i tessuti in damascato rosso imperiale, gli incantevoli arazzi e i due maestosi lampadari Ottocento in cristallo di boemia. Proprio qui Andreotti soleva convocare la gens Giulia. Poi arrivarono gli anni Ottanta, e l'ex ministro De Michelis volle acquartierare se stesso e le truppe di socialisti gaudiosi a due passi dalla sede del Psi. Seguirono fasti chiacchierati, feste e seratine osée, forse persino sconosciuti e scandalosi per i devoti occupanti delle prime file. Compare perciò vestito a festa il mondo delle Acli, a partire dal sue presidente dimissionario, Andrea Olivero; l'onnipresente ministro Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo della comunità di Sant'Egidio; il nocciolo giovane e duro della montezemoliana Italia futura, da Andrea Romano a Irene Tinagli, da Marco Simoni a Carlo Calenda. Si aggirano tra i retaggi del passato candidati sicuri e aspiranti sospirosi, giornalisti cattolici carichi di fede come geometri in cerca di un centro di visibilità permanente.
Entra il premier, dunque, ed è visibilmente accigliato, diremmo contrariato. Reduce dalle ultime riunioni, si può comprendere il suo stato d'animo. Non devono essere filate via proprio lisce. Ha proprio l'aria di uno che ha avuto a che fare con Casini e Fini. Sfiduciato e depresso, come pare confermare in tivù dalla Gruber su La7 («Non è un partito personale - sospira -, solo la risultante ahimé sofferta di quest'anno... Ero decisamente contrario, è la prima volta che scelgo una cosa del tutto fuori dalla mia natura»).
Così, quando esordisce nella sala del Plaza, è ancora teso. Oggi «sono in grado» di dire che al Senato si presenta una lista unica, mentre alla Camera le liste saranno tre: Udc, «dove immagino comparirà il nome di Casini», Fli, «dove presumo ci sarà il nome Fini» e una lista di «società civile», che non candiderà parlamentari. Il Prof annuncia che a giorni saranno noti i criteri di candidabilità validi per «tutte le liste, più esigenti rispetto alla normativa vigente». Ma, lasciando pochissimi margini ai dubbi, passa a snocciolarli. È chiaro che si tratta di una forzatura, indotta da un'esasperazione che trova riscontri nelle parole di molti esponenti «civici». «Casini? Fini? S'arrangino, sono loro che vanno a traino di Monti, non noi. Sono loro che hanno bisogno di Lui...».
Dunque i criteri. Non potranno essere della partita, in nessuna delle liste, i candidati che hanno subito condanne o abbiano processi pendenti, conflitti d'interesse. Verrà poi fatto riferimento al codice deontologico della commissione Antimafia e inseriti «limiti derivanti dall'attività parlamentare pregressa, con massimo due deroghe per lista». Segue la presentazione del logo della lista alla Camera, un piccolo nastro tricolore che prima scende e poi sale verso l'alto (in politica?). Un nastro dominato dalle scritte: «Scelta civica» (sopra, in grigio) e «con Monti per l'Italia» (sotto, in blu). Udc e Fli non potranno usufruire di alcun motto di richiamo a Monti nei loro loghi. Al simbolo del Senato, comune per tutti e tre, invece mancherà la scritta «Scelta civica». Dulcis in fundo, il Prof elenca una lista di ringraziamenti: da Casini a Fini, alle associazioni, ai transfughi di Pdl e Pd. Giusto, dove andranno a finire costoro? Il particolare andrebbe chiarito se non fosse che, mentre i cronisti si accingono a chiedere, il premier infila la via di fuga. In tutto, la bellezza di dieci minuti scarsi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.