«All’origine di tutto», sussurra il dirigente ex democristiano del Pd, «c’è quella frase detta al telefono da Fassino, ma avrebbe potuto dirla uno qualunque dei Ds: abbiamo una banca. Blindata e solo nostra. Un antico sogno che si stava realizzando».
Dietro le quinte della bufera giudiziaria che investe il Monte dei Paschi di Siena c’è anche una sanguinosa faida politica, tutta interna all’attuale Pd. Una faida che ha visto, nelle scorse settimane, la «blindatura» della banca da parte dell’ala post-piccista, e la dura rappresaglia dei post-democristiani sul sindaco (ovviamente diessino) di Siena Franco Ceccuzzi, che è stato mandato in minoranza sul bilancio comunale.
Dopo decenni di pacifica e consociativa convivenza tra le due anime del Pd (convivenza che risaliva alla Prima repubblica e agli accordi spartitori tra Dc andreottiana e Pci berlingueriano), l’incanto senese si è rotto. E la rottura rimbalza fino a Roma, nel Transatlantico di Montecitorio, riaprendo la faglia mai del tutto rimarginata che separa gli attuali conviventi nel partito guidato da Pier Luigi Bersani. Gli ex Ppi del Pd spiegano inviperiti: «Non solo i Ds hanno portato al Monte Alessandro Profumo, ma i due vice presidenti che lui ha scelto sono dalemiani doc: il commercialista Marco Turchi e Turiddo Campaini, uno che per quarant’anni ha fatto il capo di Unicoop a Firenze: il cuore del cuore del potere rosso». E se gli si obietta che a caldeggiare la nomina di Profumo si dice sia stata anche Rosy Bindi, nata nel senese, se la ridono, e con classica perfidia democristiana tagliano corto: «Il suo ruolo è quello del Partito dei contadini polacchi: un partito fantoccio al servizio dei comunisti. Lei si è fatta forte dell’amicizia con Sabina Ratti per rivendicare di aver avuto un ruolo nella nomina». Sabina Ratti è la moglie di Profumo, e nel 2007 si candidò alle primarie Pd in lista proprio con la Bindi. La mission di Profumo e dei suoi vice, secondo le letture (ovviamente interessate) dei cattolici del Pd è quella di «blindare la banca e allontanarla dall’orbita senese per portarla sotto il controllo diretto di Roma». Intendendo per Roma il Nazareno, e il tandem (ora di maggioranza, un domani anche di governo) Bersani-D’Alema, con la benedizione del presidente della regione Toscana Enrico Rossi.
La ragione per cui gli ex Ppi sono inferociti sulla questione Montepaschi è che l’operazione di ristrutturazione della banca, nell’era post-Mussari e con le avvisaglie della tempesta giudiziaria in arrivo su quei miliardi di sovrapprezzo pagati per Antonveneta, sia avvenuta sulla loro pelle. «Prima a Siena un po’ di pluralismo eravamo riusciti ad imporli. Ora la linea dei post-Ds è: la banca è solo nostra». Per pluralismo si intende spartizione del potere e (un tempo) delle ricchezze che il Monte riversava sulla città, sugli enti locali, sull’Università (regno per lustri del cugino di Enrico Berlinguer, Luigi), sull’ospedale. Come spiegava ieri un informato articolo del Sole 24 ore, il sindaco Ceccuzzi, da azionista di riferimento della banca che ha portato Profumo ai vertici, ha fatto fuori dal cda gli ex Margherita che ne facevano parte. Tra loro Alfredo Monaci, fratello di Alberto, ex esponente Dc e presidente del Consiglio regionale toscano nonchè leader della locale ex Margherita. Tanto che il presidente della Fondazione Mps Gabriello Mancini (anche lui in quota Margherita) ha votato contro la lista per il cda.
La rappresaglia è stata immediata: otto consiglieri comunali di Siena (sei ex Ppi) hanno votato contro il bilancio consuntivo presentato dal sindaco, pesantemente influenzato dal taglio dei contributi versati dalla Fondazione al Comune. Il 15 maggio si rivota, e il Comune rischia il commissariamento.
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