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"Noi, cuochi italiani negli Usa arrestati come clandestini"

Lorenza e Jonathan in cella per quattro giorni e poi espulsi. Tutto per un equivoco burocratico

"Noi, cuochi italiani negli Usa arrestati come clandestini"

Sempre più spesso agli italiani capita di essere scambiati per clandestini, negli Stati Uniti. Due anni fa il sardo Stefano Salaris andò a Boston a trovare il fratello muratore che non vedeva da 10 anni.
«Mi perquisì un poliziotto - raccontava - e in tasca trovò un biglietto con il numero di telefono di mio fratello. Aspettava la green card, non era in regola con il permesso di soggiorno e allora l'agente del servizio immigrazione pensò che volessi emigrare illecitamente: ero solo in vacanza, con regolare visto per 3 mesi; passai 4 giorni in carcere e venni espulso». Poco prima di Natale la disavventura capita a tre maceratesi vogliosi di lavorare come cuochi a New York ma provvisti solo del visto turistico, anziché per lavoro: vengono fermati all'aeroporto «Kennedy», perquisiti e arrestati per violazione delle norme sull'immigrazione. Colpa anche dell'errore di un'agenzia a cui affidano le pratiche. Giorgia Lattanzi, 21 anni, di Macerata, da 7 è fidanzata con Jonathan Papapietro, 20enne di Corridonia, 15mila abitanti nell'hinterland marchigiano, mentre è di Potenza Picena l'amico che preferisce non parlare: tutti e tre sono chef, diplomati all'alberghiero Girolamo Varnelli di Cingoli.
«Eravamo in contatto con un ristoratore italiano - spiega Jonathan -, per tre mesi di lavoro. In America le opportunità sono maggiori, eravamo gasati e pensavamo a un lavoro stabile, ci siamo ritrovati umiliati, in manette». Alle 18 atterranno, per 3 ore restano in dogana perché durante i controlli la polizia nel bagaglio trova le uniformi da cuoco. Il trio è accompagnato in una stanza a parte e dalle valigie deve tirare fuori tutto. «Non abbiamo nulla da nascondere, mica siamo criminali. Ci perquisiscono e interrogano perché i documenti non vanno bene. Insospettisce il soggiorno presso una persona e non in albergo, perciò non credono che vogliamo lavorare». Un poliziotto di origine italiana fa da interprete ma falsa le risposte.
«Diciamo sì o no e quello aggiunge parole che non pronunciamo né capiamo. Vorremmo chiamare il consolato, dicono di stare tranquilli ma poi ci caricano con forza su una camionetta, verso il New Jersey». «A me fanno spogliare completamente - si inserisce Giorgia -, senza trovare nulla. Chiedono se abbiamo precedenti, se scappiamo da qualcuno. Nulla, eppure ci portano in carcere». Tre quarti d'ora di viaggio, i due ragazzi dietro e lei davanti, così non possono parlarsi. «Neanche ci offrono un avvocato o un interprete, garantiscono il rimpatrio, invece finiamo in cella». I due giovani sono con due messicani pericolosi. «Legati pure ai piedi - ricorda Papapietro -, noi abbiamo le manette. Non possiamo chiamare nessuno, ci ritirano persino i lacci delle scarpe e la cintura, collane e bracciali». Li mettono al muro e fotografano, firmano il verbale di incarcerazione ma poi non gli viene restituito. Giorgia deve indossare la divisa blu da galera, è da sola e almeno le risparmiano le manette. Restano dentro una notte, nel tardo pomeriggio vengono rimessi in libertà. «Non tocchiamo il cibo perché è immangiabile, da bere invece dell'acqua danno il succo d'uva, neanche ci possiamo lavare». Sempre con la scorta e ammanettati li riportano in aeroporto e vengono spediti a casa, con il divieto di tornare negli Usa per 10 anni.
«I cellulari e i passaporti vengono restituiti solo a Fiumicino, lì chiamiamo l'ambasciata che ci fornisce una lista di avvocati di New York. Ne abbiamo uno anche a Macerata, il processo va avanti e chissà come finirà». Giorgia torna a lavorare a chiamata al ristorante Villa Cortese di Treia. «Magari sono caduti in una trappola - ipotizza Elio Vincenzetti, il suo titolare -, è possibile che chi li ospitava avesse precedenti». L'ipotesi viene esclusa da Jonathan, cuoco con varie esperienze alle spalle e ora disoccupato. «Siamo tornati indietro senza neanche parlare con il proprietario dell'esercizio - conclude la fidanzata -. Non abbiamo mai subito denunce, è stata una vergogna incredibile, hanno pensato che fossimo criminali. Eravamo frastornati, in fondo abbiamo 20 anni».


I genitori ci restano male, in particolare Giuseppe Papapietro, operaio, e la moglie Antonietta Costa, commerciante napoletana. «Gli Usa non sono come l'Italia - spiega Jonathan -, c'è molta intransigenza, serve tanta attenzione. Neanche se il foglio di via venisse revocato i riproveremo, ci basta questa esperienza choccante».

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