Noi imprenditori non fuggiamo ma ora Renzi si dia una mossa

Gentile Direttore,
sono un imprenditore del nord-est, uno di quelli che ha letto con interesse l'articolo di ieri sui vantaggi fiscali per chi trasferisce la propria sede in Austria e in Slovenia. Udine, la mia città, dista pochi chilometri (...)

(...) dall'uno e dell'altro confine. Girano i volantini che illustrano i benefici per chi si trasferisce. La minore imposizione fiscale è una molla notevole ma quello che attira veramente è altro. Aprire un'azienda in Austria richiede meno tempo e procedure. Gestire un'azienda in Austria richiede meno adempimenti. I controlli sono pochi ma rigorosi e all'imprenditore non si chiede di passare un mese all'anno tra burocrazia, adempimenti fiscali e scartoffie varie.
Io resto in Italia perché voglio giocare la mia partita nel mio Paese, però quello che occorre far comprendere è che serve una rivoluzione copernicana nel rapporto tra burocrazia e attività produttive. Ci sono Paesi che attraggono investimenti perché l'atteggiamento verso chi deve dare avvio a un'iniziativa è volto a semplificare al massimo le difficoltà. Se tu crei una nuova intrapresa - questo è il ragionamento - crei lavoro, paghi tasse dunque ti facilito. Da noi qualche volta, chi deve rilasciare un'autorizzazione pare avere un atteggiamento opposto: la burocrazia italiana graziosamente concede. Il tempo (25 giorni) che un imprenditore impiega in Austria per aprire un impianto produttivo qui da noi è sufficiente a malapena ad ottenere un appuntamento con un qualsiasi ufficio comunale. Non è questa la via.
C'è poi il tema delle tasse. A nord l'Austria, di cui si è già detto, e ad est la Slovenia: qui l'imposizione sulle imprese è di un terzo inferiore a quella italiana, l'energia costa il 20% in meno, la burocrazia è «amica». Per tacere di quel che accade più ad est: Electrolux pensa alla Polonia perché lì il lavoro costa 7 euro l'ora contro i 24 del Friuli.
L'azienda che con il mio socio ho fondato a Udine nel 1997 si occupa di costruzione e gestione di strutture sanitarie in tutta Italia: contiamo oggi 34 sedi, tutte in Italia, con più di 1200 occupati, tutti italiani.
A lasciare l'Italia oggi non sono imprenditori avidi che vogliono guadagnare di più. Sono persone che chiedono di poter lavorare e di competere, mentre qui sono costretti a preoccuparsi più di difendere le loro aziende che di sviluppare nuovi mercati. Il rapporto Doing Business 2014 su questo è impietoso: su 189 Paesi analizzati siamo al 90º posto per facilità ad avviare un'attività, al 138º per imposizione fiscale, al 112º per facilità di ottenere permessi, al 109º per facilità di accesso al credito: non sono certo numeri da G8 o da G20.
Come se ne esce? L'Italia è un Paese vitale, pieno di risorse straordinarie ma oggi imprigionate dentro una gabbia mortale fatta di tasse e regole.

La retorica di Renzi sul tema non mi convince: non servono pacchetti di misure fumose annunciate in inglese ma una rivoluzione nel rapporto tra Stato e imprese. E non può che essere una rivoluzione liberale.

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