Roma - Nella giungla equatoriale che è diventato il Pd, arriva ineluttabile anche l'ora dei Tarzan. Mentre qualche attempato giapponese esaurisce i caricatori, molti sono già in cerca di una liana sufficientemente robusta per passare il guado. Soave leggerezza e agilità: rincorsa, saltino e oplà. Fino alla sponda di Matteo Renzi.
Questo l'ultimo dei pericoli avvertiti dai supporter del sindaco di Firenze. Che vedono, come dice l'ex veltroniano Giorgio Tonini, tanti «funamboli, acrobati, artisti del cambio d'abito per ogni stagione» già riscaldare i muscoli per il «gran balzo». La tentazione pare aver fatto strage di cuori persino tra qualche «giovane turco», specie dopo l'intempestiva scelta di campo di Fabrizio Barca, restio ad accettare lo schema che ha portato alla rielezione di Napolitano. Per i renziani, che pure avevano subito la «nasata» dell'affettamento di Romano Prodi, lo smacco ha trovato una giustificazione teorica in armonia con il rinnovamento caro al sindaco. «La proroga di Napolitano - argomenta Tonini - ha questo significato: condurre il Paese al cambio di regime, con un governo di scopo che realizzi le proposte dei saggi e che consenta di tornare alle urne quando il lavoro sarà terminato, nel giro di un annetto. Noi speriamo anche con l'elezione diretta del presidente della Repubblica».
Non soltanto una scalata nel partito, quella di Renzi, nelle più rosee previsioni dei suoi seguaci. Di mezzo però c'è il mare, anzi i mari tempestosi della battaglia congressuale che comincerà a profilarsi già nella direzione d'inizio settimana. Chi andrà a condurre le trattative per il nuovo governo e alle consultazioni al Quirinale? Se Matteo Orfini (uno di quelli che sarebbe in riscaldamento pre-liana) ragionava sulla «non rappresentatività dei capigruppo», in quanto scelti da Bersani, non è chiaro neppure se l'ex segretario sarà chiamato a gestire «l'ordinaria amministrazione», come vorrebbe Alessandra Moretti, o verrà sostituito da un «comitato di reggenza». Per i renziani sarebbe «assai strano» che Bersani proseguisse: ha rinviato l'operatività delle dimissioni a un minuto dopo l'elezione per il Quirinale e perciò «amen». Ma non si può neppure pensare che nel direttorio possano scomparire d'incanto i bersaniani, subito dopo aver fatto largo ai renziani. E purtroppo il partito è talmente sfilacciato da non offrire neppure aree-cuscinetto, con personalità di garanzia in grado di riscuotere fiducia a largo raggio.
Renzi sembra essersi fatto prudente, in queste ore di «fase nuova» nelle quali c'è da riorganizzare tutto e dismettere i toni irruenti del passato. La raccomandazione ai suoi fidati alfieri in Parlamento è quella di tenere assieme il partito, con la speranza di non perdere nessuno. O, il meno possibile. Di scissione non se ne parla, specie dopo l'errore di valutazione di Barca. Renzi attende le mosse dei «vecchi», i loro colpi di coda. Tra le fratture prevalenti nel Pd, infatti, c'è quel salto generazionale che, come spiega la Moretti, rischia persino di ribaltare la situazione, «con i vecchi che pretendono di rottamare i trentenni». La fedelissima bersaniana, spesso in rotta di collisione con la vivacità renziana, vorrebbe perciò un «nuovo modo di intendere la politica, di superare personalismi e vecchie rese dei conti che ci hanno portato a episodi, come i franchi tiratori, di gravità inaudita». E attende da Renzi un «dialogo costruttivo» che recuperi, in primo luogo, «i segnali di novità introdotti da Bersani: giovani e donne».
Ben più arduo e traumatico sarà invece ricomporre la frattura programmatica tra la linea del «deciso riformismo» di Renzi e il tipo di «cambiamento» propugnato da Bersani.
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