«Paese di tassisti e badanti: non si produce più»

«Paese di tassisti e badanti: non si produce più»

Professor Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica alla Cattolica di Milano, come commenta i dati Eurostat sul basso livello dei salari italiani nel confronto con il resto d’Europa?
«A partire dallo scoppio della crisi i redditi medi dei Paesi europei hanno accentuato la tendenza a divergere. Per l’Italia è particolarmente grave il fatto che sia l’unico Paese dei ventisette dell’Ue ad aver registrato una diminuzione del Pil pro capite nel periodo 2000-2010».
Il ministro Fornero ed altri economisti sostengono che i redditi potrebbero aumentare se crescesse la produttività. Ipotesi che implica, tra l’altro, lavorare di più.
«In Germania non si lavora più che in Italia - anzi fino a pochi anni fa si lavorava di meno - ma il valore aggiunto orario pro capite è molto maggiore. Questo in parte viene “speso” come retribuzione maggiore e in parte viene trasformato in un minor carico di ore di lavoro».
Può fare un esempio?
«Il prezzo al chilo di un’auto prodotta in Germania è superiore a quello di una Panda. Non è il numero di bulloni che si avvitano ogni ora a fare la differenza, ma il valore aggiunto. Più cresce quest’ultimo più aumentano i profitti e i salari. In Italia negli ultimi vent’anni la produttività del capitale è diminuita, a differenza che nel resto dell’Ue».
Qual è la ragione di questo squilibrio?
«L’Italia è il Paese con il maggior numero di impiegati “classe zero”, cioè che lavorano da soli, ad esempio idraulici, tassisti, eccetera. Sono il 20% della popolazione, questo si riverbera sulle dimensioni delle imprese e sulle dinamiche del Pil. Lo stesso vale per la manodopera immigrata: abbiamo un milione e mezzo di badanti».
Bisogna considerare che le retribuzioni sono basse anche perché gravate da fisco e oneri sociali che incidono per oltre il 30%.
«La Svezia ha una spesa pubblica più elevata della nostra in rapporto al Pil e dunque maggior carico fiscale, eppure la produttività del lavoro è maggiore di quella degli Usa prima della crisi. Evidentemente i soldi sono spesi bene».
Abbassare le tasse servirebbe oppure no?
«Bisogna ricordare che siamo il Paese più “vecchio” del mondo dopo il Giappone e ciò implica necessariamente maggiore spesa pubblica. Diminuire la pressione fiscale non rappresenta la bacchetta magica, ma un impulso a crescere».
Anche diminuire il costo del lavoro a tempo determinato sortirebbe gli stessi effetti?
«Non comprendo la polemica sull’articolo 18. Se aumentare la flessibilità è un mezzo per ridurre i salari licenziando cinquantenni costosi per assumere giovani a tempo determinato che costano il 30% in meno, si crea una diminuzione del reddito sicura mentre non è sicuro che i prezzi e i costi diminuiscano conseguentemente».
Secondo lei, è necessario risolvere prioritariamente altri squilibri macroeconomici?
«Dal 1999 a oggi l’inflazione italiana è di 10 punti (l’1%, ndr) costantemente superiore a quella tedesca. È una situazione insostenibile. Ridurre il cuneo fiscale sul lavoro è possibile, ma si potrebbe creare un disavanzo nei conti pubblici. Coprirlo significherebbe far pagare agli anziani quella svalutazione competitiva che l’euro non ci consente più».
Che fare, perciò?
«L’unico Paese europeo con un avanzo stabile delle partite correnti è la Germania che ha saputo cogliere le opportunità di crescita sui mercati esteri.

Gli altri Paesi, tra cui l’Italia, sono in disavanzo strutturale e continuano a essere percepiti negativamente sui mercati. Serve quindi un maggiore coordinamento politico, altrimenti anche raggiungendo obiettivi virtuosi come un debito/Pil al 90% continueremmo a soffrire un deficit di competitività».

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