Mariateresa Conti
I politici, gli sbirri, i boss, i pentiti veri e il supertestimone pseudo-pentito imputato già arrestato per calunnia. E poi 180 testimoni, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a quello del Senato, Pietro Grasso. Tutti insieme nell'aula bunker del carcere di Pagliarelli, a Palermo, dove invece aleggeranno i fantasmi dell'imputato Calogero Mannino (ha scelto il rito abbreviato) e del padrino Bernardo Provenzano (gravemente malato). Si apre col j'accuse dell'ex ministro Mancino, che chiede lo stralcio («non posso stare nello stesso processo in cui c'è la mafia che io ho combattuto») l'atteso dibattimento sulla presunta «trattativa» fra Stato e Antistato mafioso prima, durante e dopo le stragi del '92. Si apre con il pm Di Matteo, orfano del «gemello diverso» Ingroia e delle intercettazioni col Quirinale, lesto a preannunciare la contestazione di una nuova aggravante all'ex ministro dell'Interno, imputato solo di falsa testimonianza.
Insomma, su il sipario su un processo che ricorda quello «del secolo» finito in flop a Giulio Andreotti e che come quello ha un obiettivo: processare lo Stato. Lo spettacolo, ieri, è stato brevissimo. Un'ora circa e tutto rinviato, nuovo capo d'accusa a Mancino incluso, a venerdì prossimo. Per i non appassionati alle cose di Cosa nostra va detto che secondo l'accusa, la «trattativa» tra pezzi deviati dello Stato (politici, ex ministri, e soprattutto carabinieri del Ros che avrebbero contattato l'ex sindaco Vito Ciancimino) e i vertici di Cosa nostra (Totò Riina) per fermare le stragi avrebbe visto la luce all'indomani dell'omicidio del dc Salvo Lima a marzo del '92 per proseguire fino al '94, alla fallita strage di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma. Le prove? Le dichiarazioni non proprio esaustive, per non dire tardive, dei pentiti Brusca e Mutolo, e le pezze d'appoggio fornite da Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo. E proprio sulla inattendibilità del «supertestimone» - già fatto a pezzi dalla procura di Caltanissetta - punta invece la difesa. Tanto più che Ciancimino jr, in questo processo, è anche imputato, oltre che di attentato a corpo politico dello Stato, anche di concorso esterno in associazione mafiosa e di calunnia, ai danni dell'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Insomma, pure per i pm che vogliono usarlo come teste principe Ciancimino jr è un calunniatore. «Sono preoccupato per il mio ruolo di teste più che per le accuse nei miei confronti», ha detto ieri Massimo Ciancimino, che si è anche intrattenuto in aula con Salvatore Borsellino. E in effetti, versioni contrastanti a parte, saranno soprattutto le perizie a metterlo in difficoltà. Che Ciancimino jr abbia consegnato in serie ai pm dei falsi, realizzati attraverso un sapiente uso del «copia e incolla» di pezzi di documenti, è stato già provato. È accaduto col bigliettino col nome «De Gennaro» che gli è costato l'arresto e l'accusa di calunnia; è successo con una fantomatica lettera del padre don Vito a Silvio Berlusconi, risultata una bufala. Ed è successo anche con un testo attribuito a don Vito, prodotto in fotocopia, che riproduce una bozza di testo indirizzata al governatore Fazio, fondamentale per il processo appena aperto perché don Vito parla di un «...primo scellerato tentativo di soluzione avanzato con il mio contributo al colonnello dei Ros Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia ennesimo strumento nelle mani del regime e di fatto interrotto col l'omicidio del giudice Borsellino, sicuramente in disaccordo con il piano folle». Il testo è dattiloscritto. Ma ci sono quattro parole aggiunte a mano che secondo il Gip lo rendono autentico, mentre per i periti della difesa sono state scritte sì da don Vito, ma incollate sul documento in fotocopia. Insomma, persino la prova principe potrebbe essere un fotomontaggio. L'ennesimo.
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