«Bravo Napolitano, ora fai tu perché noi non siamo in grado». È di Matteo Orfini la sintesi più efficace della posizione Pd, al termine della riunione di una sofferta direzione.
È l'appuntamento in cui si tirano le somme di 2 mesi di batoste, passi falsi, tradimenti e implosioni, e il clima cupo da mancata elaborazione del lutto, dopo la dura requisitoria iniziale di Pier Luigi Bersani, finisce per far passare in secondo piano quello che è il vero obiettivo del summit. C'è un governo da fare; e c'è stata, almeno per 24, l'ipotesi di calare la carta più forte e innovativa che il partito abbia a disposizione: Matteo Renzi. Eppure, paradossalmente, il suo nome - gettonatissimo dalle altre forze politiche - non viene pronunciato da nessuno nella riunione. Non lo fa neppure Matteo Orfini, che la sera prima aveva lanciato la candidatura in tv ma oggi lascia sul tavolo solo un identikit: «Serve una proposta di innovazione e che sappia parlare alla società». L'unica eccezione è quella di Umberto Ranieri, l'esponente Pd storicamente più vicino a Napolitano: «Sarebbe una scelta coraggiosa che risponderebbe a una domanda politica, un passo importante nella ricostruzione del rapporto tra politica e cittadini», dice dal podio. Ma il sindaco di Firenze si sfila: «Sarebbe l'ipotesi più sorprendente, ma è la meno probabile», si limita a dire entrando, inseguito da una bolgia di telecamere e paparazzi.
Il budello di via del Nazareno diventa ben presto un girone infernale, con i dirigenti del Pd che faticano a varcare il muro umano di cronisti e curiosi che blocca il traffico, tra clackson impazziti e tubi di scappamento. Dentro, il clima è pure peggiore. Apre il segretario, ribadendo le sue dimissioni e riversa sulla platea la propria rabbia e amarezza contro un partito «preda di anarchismi e feudalesimi», che deve assolutamente trovare «un principio d'ordine, altrimenti non saremo mai utili a questo paese». Se la prende coi franchi tiratori che hanno affossato Marini e Prodi: «Dicono che volessero colpire me, ma erano missili a testata multipla quelli». Porta ad esempio della diffusa degenerazione del rapporto con il partito l'ex pm Gherardo Colombo, da lui indicato per il Cda Rai: «Chiede la tessera per stracciarla, usa il Pd come un autobus». Battibecca con la Serracchiani, che chiede conto dei cambi di linea: «Perché si è detto no al governissimo per poi fare un accordo con Berlusconi su Marini?». Lui se la prende con «quei nostri dirigenti che non conoscono neppure la differenza tra maggioranze istituzionali o di governo». Dario Franceschini riporta tutti coi piedi per terra: «Chi ha il 30% dei voti, ossia il 15% degli elettori, non può mostrare i muscoli», e se «Berlusconi avesse preso i nostri voti e tentato di imporre sé stesso altro che sit in avremmo organizzato». Anna Finocchiaro lamenta le «aggressioni» subite e denuncia la «mancanza di tutela del gruppo dirigente», e con Franco Marini chiede di fare una scelta chiara per un «governo politico».
Tutti - o quasi - ripetono che la scelta è una sola: «Dire sì a Napolitano», rimettersi alle sue decisioni, e quando Orfini chiede di mettere «alcuni paletti» lo contestano.
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