RomaFini, nel pallone, si affida a Paolo Rossi e Fabio Grosso per guidare i suoi «mille» ed entra in tackle duro sul Cavaliere: unico modo che gli è rimasto per far parlare di sé. L'aver dato del «corruttore» a Berlusconi provoca l'ira funesta del Pdl che medita di disertare le prossime sedute d'Aula quando saranno guidate da lui. A dettare una nota pesata col bilancino, il capogruppo Cicchitto: «È evidente a tutti che Fini è cosi impegnato nella versione più dura dello scontro politico ed elettorale in atto... e ciò è in totale contraddizione con l'atteggiamento di imparzialità e sobrietà che dovrebbe caratterizzare un'altissima carica istituzionale dello Stato». E quindi si suggeriscono le dimissioni: «Per la normalità del confronto politico sarebbe bene che egli ne traesse le conseguenze anche perché si sta costituendo un precedente destinato a modificare in peggio la qualità della carica di presidente delle assemblee elettive».
Ma le dimissioni, peraltro promesse ma mai mantenute, non arriveranno. Per Lara Comi, invece, «Fini è mosso da sete di vendetta, sicuro che passando da vittima potrà rifarsi quella verginità perduta a Montecarlo». Di fatto, relegato a ruotino di scorta di Casini, costretto ancora una volta a prendere a calci la coerenza, devastata un'antica e solida comunità politica, inanellati una serie di flop biblici, a Fini non resta che l'ultimo raglio antiberlusconiano, in barba ai peana del «Caro Silvio, fammi elogiare la tua lucida follia e la validità, la bontà e anche l'intelligenza di chi ha fatto la scelta strategica del Pdl» (congresso fondativo, 30 marzo 2009). Ma l'uomo è fatto così.
Così, ad Arezzo, il presidente della Camera raduna i suoi «Mille per l'Italia», mossa modaiola per far vedere che lui - casta che più casta non si può - non rappresenta un potere partitocratico ma apre alla società civile. Manovra complicata. Innanzitutto perché ha già fatto una fatica titanica a racimolare nomi di peso. Dopo aver fatto la corte a Marcegaglia e Montezemolo e dopo aver ricevuto da entrambi un due di picche, Fini s'è ridotto a puntare tutto su Paolo «Pablito» Rossi e Fabio Grosso. Due campioni del mondo, certo. Ma di calcio. Insomma, Fini è nel pallone. A disegnare l'Italia futurista ci saranno anche l'attore Giorgio Albertazzi, l'ex ministro della Difesa Salvo Andò, i giornalisti Rai Angelo Mellone e Bruno Soccillo e il comandante delle frecce tricolori Maurizio de Rinaldis. Di pesi massimi non se ne vedono. Ai Mille sarà consentito parlare per tre minuti mentre per i parlamentari fillini sarà bavaglio. Potranno dire la loro soltanto gozzovigliando in una cena al centro ippico di San Zeno: un modo per racimolare quattrini visto che le casse del Fli piangono. Quindi ben vengano i 35 euro a testa che i militanti dovranno sborsare per mangiare vicini a un Granata o una Perina.
Già, gli attuali parlamentari: altra grana per Fini. Gianfranco è alle prese con le legittime aspettative di ricandidatura di quei (pochi) che gli sono rimasti vicini. Partito lancia in resta e ditino alzato con il suo «Che fai mi cacci?», Fini ha perso per strada 18 uomini tra Camera e Senato (Sbai, Angeli, Moffa, Polidori, Siliquini, Catone, Rosso, Barbareschi, Belotti, Cosenza, Ronchi, Scalia, Urso, Buontempo, Menardi, Saia, Pontone e Viespoli). E chi sta ancora con lui fa la spola quasi quotidianamente nel suo ufficio per cercare assicurazioni sulla ricandidatura. E lui? Al solito: sceglie la tattica del divide et impera. Accende e spegne le fortune dei suoi uomini come fossero abat-jour, scatenando così le inevitabili gelosie e rivalità reciproche. Bocchino, per esempio, è finito nell'ombra a tutto vantaggio di Della Vedova e Menia. In ogni caso, la parola d'ordine data ai suoi sottufficiali (di colonnelli ormai non ce ne sono più) è «Fate tutti un passo indietro». Anche visivo, posto che nessuno dei parlamentari siederà nelle prime file e gran parte dell'organizzazione dell'evento è andata in mano a Salvatore Tatarella, fratello del compianto Pinuccio.
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