di Basterebbe un minimo di memoria non offuscata dalle dispute ideologiche per capire quant'è importante un impianto come quello di Taranto: la nostra cara, vecchia e un po' logora Europa unita nacque su carbone e, appunto, acciaio. La «Ceca» fu l'embrione della Comunità. Materiali brutti, sporchi e cattivi, ma fondamentali per la rinascita postbellica, insostituibili nella ricostruzione, necessari per qualsiasi produzione, sempre che si voglia mantenere un'industria nazionale. Prima ancora, non ci sarebbe stata rivoluzione industriale senza miniere e fonderie.
Suonano quasi banali le affermazioni del ministro Corrado Clini: «La situazione dell'Ilva investe tutto il sistema industriale italiano». È fin troppo evidente che la siderurgia è essenziale per un Paese come il nostro, forte di un'industria meccanica di prim'ordine (seconda in Europa dietro alla Germania) che esporta in tutto il mondo lavorazioni di altissima qualità. L'acciaio è indispensabile per la manifattura, se non ce l'hai lo devi comprare, e se blocchi un impianto come quello di Taranto succederà come per l'energia: dovremo approvvigionarci ai prezzi capestro imposti da chi è più spregiudicato di noi.
L'Ilva è la prima acciaieria d'Europa. Da Taranto escono ogni anno 10 milioni di tonnellate d'acciaio, oltre un terzo della produzione nazionale. Staccare la spina a un impianto simile equivale a dare il colpo di grazia a ciò che rimane dell'agonizzante industria italiana. Secondo Eurostat, negli ultimi 12 mesi la produzione industriale ha registrato un calo dell'8,2 per cento: il dato peggiore dei 27 Paesi dell'Unione europea. Tutti rallentano, ma più lentamente di noi. Un governo di tecnici magari non si accorge del dramma personale di chi rimane privo di lavoro e prospettive, ma deve reagire davanti alle statistiche, ai numeri, che sono il pane dei professori.
Chiudere le acciaierie significa mettere una corda al collo non soltanto ai colossi dell'auto, ai cantieri navali e alle altre unità produttive del gruppo a Genova e Novi Ligure che vivono di quanto arriva da Taranto, ma all'infinità di piccole e medie aziende (l'ossatura dell'economia nazionale e del nostro export) che producono macchinari e utensili per l'industria, che lavorano i metalli e fabbricano impianti a elevata tecnologia per tutti gli altri settori manifatturieri. Fino a non molti anni fa il peso di un'economia si misurava con le tonnellate di acciaio prodotte e la flotta mercantile, ed è ancora così per Paesi come Stati Uniti, Cina, India, Russia e Germania, dove le acciaierie sono più nere delle nostre ma nessuno si sogna di asfissiarle.
E i nostri concorrenti sono già lì a fregarsi le mani, pronti magari a fare un boccone della siderurgia italiana che in buona parte è già stata comprata da magnati russi e indiani. O si preparano ad approfittare delle nostre disgrazie: siccome la crisi costringe a calmierare la produzione comunitaria, ecco una soluzione servita su un vassoio d'argento dalla magistratura e dall'insipienza della tecnopolitica. Se bisogna ridurre le lavorazioni, si taglia in Italia lasciando intatti i quantitativi di Francia e Germania.
Ma l'Ilva e la siderurgia non sono soltanto la base dell'industria nazionale. C'è anche una questione di affidabilità per gli imprenditori stranieri che vogliano investire da noi. Il sequestro di Taranto, avverte il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, è «un segnale difficile da comprendere per gli investitori, soprattutto esteri. Non possiamo rinunciare alla vocazione manifatturiera e siderurgica che ha portato l'Italia a essere una delle prime potenze economiche mondiali».
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