Il re degli immobiliaristi finisce in manette

Fermato prima dell’incontro col sindaco di Imperia. L’accusa è truffa aggravata allo Stato per il porto turistico

Il re degli immobiliaristi  finisce in manette

Un mare di guai per un porto che non s’ha da fare. L’imprenditore romano Francesco Bellavista Caltagirone, patron del colosso immobiliare Acqua Marcia, ha smesso di essere un uomo libero mentre aspettava di sorseggiare un caffè col sindaco Paolo Strescino, nel suo ufficio al Comune di Imperia. Anziché arrestarlo a casa lo hanno ammanettato dove mediaticamente conveniva di più. E davanti ai fotografi, alla tenera età di 73 anni, l’hanno trascinato via con l’accusa di truffa aggravata ai danni dello Stato per la costruzione dell’approdo turistico imperiese. Il cugino del più noto Francesco Gaetano, dopo aver più volte chiesto (invano) di essere ascoltato dai pm, è stato finalmente accontentato: due ore, faccia a faccia, con gli inquirenti. Ma già in manette. Poi dritto in galera, addirittura col divieto di incontrare gli avvocati.

L’inchiesta sulla «Porto Imperia Spa» di cui Bellavista Caltagirone è azionista, è la stessa dov’è indagato da tempo l’ex ministro Claudio Scajola, e che da ieri vede in cella anche Carlo Conti non più direttore della «PI» Spa dall’ottobre scorso, la società concessionaria delle aree portuali. Indagati, ma a piede libero, Paolo Calzia, presidente della Spa ed ex direttore generale del Comune di Imperia ai tempi cui si riferisce l’indagine, Delia Merlonghi, legale rappresentante della società di Caltagirone Acquamare, Domenico Gandolfo, ex direttore della Porto di Imperia, e Beatrice Cozzi Parodi, compagna dell’Ingegnere, socia della Porto di Imperia Spa in quota a Imperia Sviluppo, la cordata di imprenditori col 33 per cento della «Porto di Imperia» (il restante 33 è del Comune).
Un arresto a sorpresa, questo di Bellavista Caltagirone. Per più e più motivi. Perché arriva a seguito della clamorosa sentenza del Tar che gli ha dato ragione sancendo l’annullamento della revoca della concessione demaniale alla Porto di Imperia Spa e cristallizzando il fallimento dell’offensiva politica del Pd locale. Perché questa revoca è tra i capisaldi d’accusa dell’inchiesta-madre sul porticciolo che, è bene sottolinearlo, ha origini «politiche» essendo stata «telecomandata» proprio da un esposto del Partito democratico ligure su abusi edilizi nel porto. Perché di questa presunta truffa allo Stato non si riesce a capire bene l’entità, e il contorno penale, posto che il presunto lievitamento dei costi per i lavori - come sottintende con amara ironia un comunicato della società Acqua Marcia - sono interamente ed esclusivamente private e sostenute dal socio investitore, ovvero il Gruppo Acqua Marcia, «che si è accollato l’intero onere di realizzazione dell’opera».

Se dunque in ballo non c’è un euro pubblico, contestare all’ingegnere la truffa aggravata ai danni dello Stato rischia di diventare complicato. Anche perché a monte del progetto non c’è appalto avendo il Comune proceduto con l’affidamento in house (che prevede una minore incidenza pubblica e oneri non a suo carico) seguendo pari pari le regole previste dal decreto legge che porta il nome di un noto esponente ligure «democratico»: l’ex ministro ai Trasporti, Claudio Burlando.
Per la procura le cose stanno invece diversamente. I prezzi lievitati oltre misura sarebbero stati fatti ricadere sugli oneri di realizzazione propri della parte pubblica della società, che è rappresentata dal Comune a sua volta proprietario di un terzo delle quote della Porto di Imperia Spa. Non solo.

La procura contesta a Caltagirone di aver giocato al ribasso sul reale valore dell’opera. Non 40 milioni come sostenuto «a parole» dall’ingegnere bensì fra i 200 e i 300 milioni come dimostrato, con perizie e relazioni tecniche, dai consulenti dell’accusa. In più vi sarebbero «lavori fantasma», contabilizzati e mai eseguiti come la passeggiata di via Scarincio sul porto vecchio. Facendo il totale, osservano i pm nei decreti di perquisizione, gli «indagati avrebbero commesso reati (...) per consentire all’Acquamare di Caltagirone di acquisire il 70 per cento delle opere realizzate per un corrispettivo di 209 milioni di euro». Tant’è. Nell’inchiesta-madre l’ipotesi iniziale era incentrata su un’associazione per delinquere composta da Caltagirone Bellavista, l’ex ministro Scajola, e da altri soggetti (pubblici e privati) tutti insieme appassionatamente per favorire l’ingegnere così da riceverne, in cambio, profitti illeciti. Al pm non era chiaro come e perché era stata definita l’operazione posto che il dirigente dell’ufficio porto e demanio del Comune, s’era deciso a revocare la concessione alla Porto d’Imperia Spa, revoca poi sconfessata dal Tar. Nel mare magnum degli accertamenti è finito triturato anche il vicesindaco Rodolfo Leone. L’accusa? Concorso in abuso d’ufficio per l’affidamento al «privato» del maxibacino. La sua vera colpa? L’amicizia con Scajola. Strada facendo, a far data dal 22 ottobre 2010, a seguito di una perquisizione nella centrale di Acquamare a Roma e nella Spa portuale, si è aperto questo fascicolo parallelo su segnalazione della polizia postale di Genova per un’ipotesi di truffa aggravata in concorso ai danni dello Stato per un importo di circa 500 mila euro.

Tracce di questa asserita truffa (scambio di e-mail, bozze di documenti riservati, file contabili) secondo gli inquirenti «sarebbero» state recuperate scavando negli hard disk della segreteria dell’ingegnere. Di fronte a un 73enne in prigione, a cui è stato pure vietato di parlare coi difensori, l’uso del condizionale inquieta.

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