Roma - Quando la giornata volge al termine, una giornata estenuante per impennate e brusche cadute, Matteo Renzi confida a un parlamentare della sua stretta cerchia di «non partire certamente come il favorito di Napolitano, mica mi fo' illusioni... Però la mia candidatura regge. E se lui me lo chiede, io ci vo' di corsa. Capperi se ci vo'».
L'ambizione non è una brutta cosa, ha già dichiarato il sindaco di Firenze in risposta al vecchio Marini che lo considera ben peggio di un giovane screanzato. E quella che lo vedrebbe premier in un momento come questo, con alle spalle un partito non rottamato come voleva lui, bensì schiantato sotto un bulldozer, è davvero una sfida rischiosa. I renziani sono però fiduciosi, sicuri che «lui è talmente coraggioso che accetterebbe la sfida, certo anche di poter interpretare al meglio le raccomandazioni di Napolitano». Ciò che hanno visto della direzione del Pd, attraverso il diabolico stupido giogo della diretta streaming, non li ha convinti del tutto. Anzi, forse per nulla. Questo quasi volersi tirare fuori, restare con un piede fuori e l'altro dentro, la «bassa intensità politica» non solo disattende le parole del presidente applaudite in aula, ma sembra persino «poco rispettoso nei confronti di Napolitano», come dirà più tardi la senatrice Rosa Maria Di Giorgi.
Una presa in giro. Con l'aggravante avanzata da qualche vecchia volpe della politica, nei sussurri di cornice alla direzione, che ha il tono suadente della mossa politica perfetta, quella che ti fa sempre vincere. «Noi il nome di Renzi non dobbiamo farlo, semmai esce fuori dal cilindro il Quirinale; toccasse a lui, meglio. Se il governo funziona, buon per tutti e il Pd ha trovato il suo Santo. Se Renzi fallisce, ce lo siamo tolti dal groppone».
C'è anche questo, nella marea montante che per l'intera giornata pare spingere il giovane fiorentino fin sul Colle per l'incarico, superando le ovvie considerazioni sulla mancanza d'esperienza e l'azzardo politico. «Però è anche l'unico nome che può mettere in secondo piano l'inciucio: sarebbe una svolta vera, darebbe un segnale importante all'esterno, metterebbe nell'angolo persino i grillini», ragionava qualche renziano con un concorde D'Alema. Così che, al posto dell'annunciata proposta di Matteo Orfini, che da due giorni svolazza sulle liane per farsi alfiere fiorentino, ci si è ritrovati in direzione a sentire pronunciare quel benedetto-maledetto nome da Umberto Ranieri. Una vita con Napolitano, più che suo uomo di fiducia. Una sorpresa, dal significato ancora indecifrabile. Disarmare forse le voci di una contrarietà netta del presidente all'irrompere del sindaco? Anticipazione di una linea che potrebbe rivelarsi vincente per tutti, considerata la scarsa popolarità di Amato e il fuoco amico che ha accolto una candidatura di Letta nipote?
Nel frattempo, su Renzi e una sua possibile candidatura, erano giunte dosi da cavallo di dichiarazioni favorevoli, persino imbarazzanti per lo spettro politico attraversato. Fratelli d'Italia, Lega, Pdl (con l'eccezione di Gianni Letta e Altero Matteoli), Scelta civica. Anche Vendola, pur vedendo in Berlusconi una «camicia di forza», ne trattava con simpatia la novità. Molta più cautela, fino alla freddezza di Parisi, arrivava invece dal Pd, proprio mentre Grillo gli sparava contro bordate di fuoco.
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