Ma ha ancora senso, in una società globalizzata, l’inviato di guerra? Gli apparati elettronici, le connessioni satellitari non ci inviano una messe di informazioni da tutto il mondo, di cui c’è solo l’imbarazzo della scelta? Cosa ci va a fare un giornalista in un teatro di guerra che è lontano e sperduto soltanto se lo consideriamo tale con anacronistiche valutazioni, mentre invece la tecnologia moderna ce lo rende presente ed evidente quasi, si potrebbe dire, in ogni momento della giornata? Tutto, insomma, ci lascia supporre che questa figura di giornalista sia patetica nella sua inutilità. E invece credo, proprio, che sia esattamente il contrario.
Sfioriamo appena la cronaca di queste ore, unendoci all’apprensione e alla speranza che il giornalista di Repubblica catturato dai talebani sia liberato. Prendiamo, però, ad esempio, l’Afghanistan. Chi ci dice davvero ciò che succede laggiù? I programmi confezionati con immagini di repertorio? Saranno anche filmati efficaci, drammatici, ricchi di suggestioni, ma riguardano sempre e comunque il passato, e noi non veniamo a conoscere nulla della realtà presente, di ciò che sta accadendo. Sono i corrispondenti di guerra che ci descrivono il mondo, che costruiscono la Storia.
Cicerone diceva che Erodoto è l’inventore della Storia: la sua descrizione delle guerre dei greci contro i persiani si basa su una visione diretta dei fatti, le sue analisi critiche sono il risultato di uno sguardo lucido, disincantato, razionale. Erodoto, Senofonte sono i primi grandi corrispondenti di guerra: i loro racconti non servono soltanto a spiegare a noi moderni le vicende di un lontano passato, ma, quando vennero scritti, hanno aiutato a formare nei contemporanei la conoscenza di un mondo diverso dal loro, hanno aperto lo sguardo su altri popoli, altre tradizioni, hanno fatto comprendere realtà neppure immaginabili. Senza le «storie» di Erodoto o di Senofonte, la Grecia non sarebbe mai potuta diventare quel faro di civiltà che ha illuminato l’origine della nostra cultura.
Il corrispondente di guerra opera nel momento di massima crisi nei rapporti tra Paesi, tra comunità, quando cioè viene interrotto qualsiasi tipo di dialettica e i fronti sono radicalmente contrapposti nella relazione amico-nemico. In queste circostanze, il giornalista ha certamente il compito importantissimo di darci notizie di prima mano per farci capire quello che succede. Ma le sue informazioni vanno oltre l’informazione stessa, ci aprono al mondo degli altri che nulla più di una guerra ne preclude l’accesso. E questa apertura è conoscenza, esercizio critico per comprendere, per evitarci di rimanere chiusi in una dogmatica o ideologica autoreferenzialità.
Da Erodoto, Senofonte a Hemingway, a Montanelli: la vicenda umana e l’impegno culturale di chi sa veramente raccontarci guerre e insurrezioni sono sempre uguali, affascinanti, rischiosi. Restiamo più vicini a noi. La guerra civile in Spagna, la rotta di Caporetto durante la prima guerra mondiale possiamo studiarle nei libri di storia. Ma i resoconti di quelle vicende vissute direttamente dallo scrittore americano avevano fatto conoscere a tutto il mondo il dramma del popolo spagnolo, il disastro dell’esercito italiano in rotta per colpa dell’ottusità dei generali. E Montanelli non ci dava la chiave per comprendere la violenza della dittatura sovietica nell’Europa orientale? Quanto tempo ci è voluto perché tutti capissero quello che lui ci raccontava, perché le non poche e importanti persone chiuse nei propri pregiudizi ideologici si aprissero alla conoscenza dei fatti?
Certo, oggi il mondo della comunicazione globale tende a spettacolarizzare sia la guerra che i giornalisti inviati per informarci della guerra. E così in questi ultimi tempi abbiamo spesso ricevuto racconti inutili o raffazzonati di giornalisti soltanto preoccupati di esibire abbigliamenti secondo la moda di guerra.
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