Riduciamo il debito senza svendere il Paese

Privatizzare ripartendo dagli errori del passato: si parta dalle municipalizzate

Scanso subito ogni possibile equivoco di marca statalista: chi scrive è un liberale strafavorevole al concetto di privatizzazione. Per quel che vale, nei mesi scorsi, ho contribuito anch'io, insieme a Renato Brunetta e ad altri amici, alla elaborazione della proposta di attacco al debito pubblico presentata dal mio partito. Questa proposta prevedeva la valorizzazione e la messa sul mercato di quote di patrimonio pubblico, non solo immobiliare, per abbattere il fardello del nostro debito, uscire dalla minaccia (o dall'alibi) dello spread, e fornire un margine per l'avvio delle necessarie riduzioni fiscali. Ma la premessa della nostra proposta, appunto, era la valorizzazione di quote di patrimonio pubblico, attraverso un fondo, e l'uso di meccanismi (a partire dal warrant, come ipotizzato assai opportunamente dai professori Savona e Rinaldi) che potessero incoraggiare anche i piccoli risparmiatori, e non solo i grandi investitori.
Altro conto sarebbero invece sciagurate spoliazioni, simili a quelle purtroppo avvenute nel periodo '92-'93, con la perdita a prezzi da saldi di fine stagione di intere quote di settori trainanti (chimica, meccanica, agroalimentare, grande distribuzione, alcune banche, etc.): c'è chi teme, purtroppo con buone ragioni alla base di questa preoccupazione, che qualcosa del genere possa ripetersi anche adesso con i gioielli rimasti.
Facciamo un passo indietro. Sull'ormai leggendario incontro a bordo del Britannia, il mitico panfilo reale inglese, si è scritto anche troppo, non di rado con esagerazioni da cattiva letteratura fantasy. Eppure, la storia merita di essere ripensata. Siamo nel giugno del 1992: mentre sta per aprirsi una profonda crisi politica, mentre sta per concretizzarsi in modo devastante la minaccia giudiziaria, mentre si sta sgretolando il potere del ceto politico allora al governo, un pugno di politici, di banchieri, di finanzieri, di boiardi di Stato, si raduna con importantissimi interlocutori stranieri, al largo tra Civitavecchia e l'Argentario, per parlare di privatizzazioni. L'esito della storia è noto: ferma restando la buona fede di tutti i partecipanti, ferma restando la difficoltà obiettiva di quella fase politica, sta di fatto che nei semestri successivi prende corpo quella che tanti (uno per tutti, Francesco Cossiga) hanno giustamente descritto non come una privatizzazione, ma come una svendita di buona parte del patrimonio industriale pubblico italiano.
Ecco, senza esagerare in paralleli sempre avventurosi, e tenendo presente che la storia non si ripete mai in modo totalmente sovrapponibile rispetto al passato, non vorrei che qualcuno, dentro e fuori i confini italiani (e in genere c'è soprattutto da preoccuparsi di chi sta dentro), e magari qualche insospettabile new entry rispetto ai protagonisti della crociera di vent'anni fa, accarezzasse il sogno di un remake di quel film. Alcuni ingredienti non mancano: l'iniziativa giudiziaria in corso che investe proprio alcuni nostri gioielli nazionali, la fragilità di un governo più tecnico-tecnocratico che politico, e infine il fatto non irrilevante che nella pancia dei nostri residui giganti pubblici (Eni, Enel, Finmeccanica) ci siano ancora valori immensi. Per carità: da liberale, sono sempre per il dimagrimento del «pubblico». Ma il dovere della buona politica è anche quello di salvaguardare l'interesse nazionale, valorizzando il patrimonio di cui si dispone, anziché svenderlo a pezzi.
Ecco perché, da liberale e da liberista, pongo due questioni. La prima: perché, anziché iniziare dai grandi gioielli, non si comincia dalla valanga di immobili di proprietà pubblica?
E perché non si prosegue con le aziende municipalizzate (sono circa 7.700) che in tutta Italia sono il vero refugium peccatorum della partitocrazia locale, con oltre 19mila dirigenti di nomina politica? La seconda. Per evitare una deriva da una deriva da «Britannia 2» che farebbe molto male al Paese, la partita va giocata rispetto alla nostra capacità di sostenere un confronto a testa alta con l'Unione europea, e rispetto alla necessità ineludibile di sancire criteri di reciprocità rispetto agli altri Paesi, Germania in testa.

Cosa si aspetta a combattere su questo punto? Se l'Italia non lo farà, vorrà dire che qualcuno avrà voluto un Paese più debole, e con il proverbiale cappello in mano.
*Presidente commissione Finanze della Camera

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