Gli italiani sono un popolo che tiene famiglia. Da sempre. E non se ne dimenticano mai, neppure al momento della pensione: cronache alla mano, aumentano i casi di prepensionamenti e ristrutturazioni aziendali in cui i lavoratori rinunciano a tenersi il posto di lavoro o a incassare bonus, liquidazioni o integrativi vari in cambio di un contrattino almeno part time per i propri figli.
L'ultimo episodio un paio di giorni fa a Venezia: la società che gestisce il casinò, impegnata nella definizione di un piano di riorganizzazione, s'è vista offrire da due croupier la disponibilità al prepensionamento anticipato in cambio dell'assunzione dei rispettivi figli. La trattativa è in corso. E fa da specchio a quella incardinata dalla Perugina, marchio della multinazionale Nestlè, che ai 1.000 dipendenti dello stabilimento di San Sisto, alle porte di Perugia, ha proposto una riduzione dell'orario di lavoro da 40 a 30 ore settimanali, bilanciato dall'impegno ad assumere un figlio con contratto di apprendistato, se in possesso del profilo adatto alle esigenze della produzione.
«Nessuna meraviglia: è un fenomeno più antico di quanto non sembri», spiega il professor Italo Piccoli, docente di sociologia dei consumi alla Cattolica di Milano. E per dimostrarlo, pesca nei suoi ricordi. Citando i risvolti di una ricerca sul tema di qualche anno addietro: «Rammento che da uno studio che riguardava la Beretta, produttrice di armi, emerse che il responsabile del reparto incisioni occupava il posto che era stato già del padre, e prima ancora del nonno e di tanti suoi antenati. Insomma, si venne a scoprire che la famiglia di questo signore lavorava ininterrottamente in Beretta dal 1750, e che il figlio studiava per diventare, a sua volta, incisore». Avanti per ius sanguinis, come nel comparto bancario, dove l'avvicendamento familiare pare essere criterio ormai sovrano: nel 2006 Intesa San Paolo ha riservato 213 posti (su 390 neo assunti) ai figli di papà (o di mammà). Nel 2009 il Monte dei Paschi ha barattato per 600 prepensionamenti 100 nuove assunzioni, «tramite lo scorrimento delle graduatorie di figli di dipendenti di Siena e di Grossetto». Nel 2010 è toccato alla Bcc di Roma riproporre lo schema nell'Urbe, allargando le maglie fino ai parenti di terzo grado. E nel 2011 Unicredit ha firmato un accordo sindacale concedendo diritto di prelazione, a parità di valutazione con gli altri candidati, ai figli dei dipendenti, purché «laureati e capaci di parlare l'inglese». E così, sia pur con modalità differenti, è avvenuto anche in Poste Italiane, in Ferrovie e in una miriade di piccole e grandi aziende del Belpaese. E la meritocrazia? Piccoli sorride: «Le aziende sono contente. Si liberano di vecchietti che costano, che generalmente non hanno conoscenza approfondita delle lingue e dell'informatica, ed intanto immettono nei propri organici forze fresche, in possesso di un know how in media superiore, per le quali pagano meno e di cui possono fidarsi perché, in un certo senso, sono cresciute in azienda».
Dopo tanta retorica sul premiare il merito, sorprende che torni di moda questa forma di welfare all'italiana. Ma evidentemente funziona, soprattutto in un momento di crisi: lacrime e sangue, ma con l'antidolorifico incorporate, per ridurre la conflittualità durante le ristrutturazioni aziendali.
L'intesa è stata già siglata: all'Italia che tiene famiglia non piace perder tempo.
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