Sì alla legge anti femminicidio ma adesso la criticano tutti

La classe politica sotto assedio ha staccato un bonus di credibilità davanti all'opinione pubblica. Il decreto contro il femminicidio, infatti, è legge. Le larghe intese, almeno questa volta, hanno funzionato, anche se le norme sono annegate in un provvedimento omnibus in cui si parla di Tav, si discute di vigili del fuoco e si allunga l'eterna agonia delle province. Pd e Pdl sono tutti un coro, i giuristi, avvocati e magistrati, invece parlano di «norma da ripensare» e noi, nel nostro piccolo, siamo con loro. I nostri dubbi li avevamo già esposti sul Giornale il 9 agosto scorso quando il decreto fu varato in pompa magna, come una nave ammiraglia, dal governo Letta. Il rispetto delle donne e più in generale delle vittime della violenza domestica è sacrosanto, ci mancherebbe. Il punto è che non quadra l'ennesimo provvedimento emergenziale, tutto cerotti sul corpo malato del sistema giudiziario italiano.
Si introducono, tanto per cambiare, tutta una sfilza di aggravanti, per le violenze contro le donne incinte, per quelle commesse dal coniuge e ancora in danno o in presenza di minorenni. È la solita politica di tutti i governi: quando un reato desta allarme sociale si inaspriscono le pene e si fa la faccia feroce. Ma purtroppo questa sistema, che ha trasformato i nostri codici in un guazzabuglio inestricabile, non serve. O comunque non è sufficiente a fermare la mattanza. Il dato drammatico è l'incertezza della pena. Aggravare la sanzione è solo un segno di debolezza, è l'ammissione mascherata che la nostra giustizia fa acqua. Perché arriva tardi. Spesso, troppo tardi. Gli uffici sono ingolfati da milioni di procedimenti ed è difficile stabilire le priorità fra un allarme e l'altro. La magistratura e la politica dovrebbero avere il coraggio di rivedere quel tabù chiamato obbligatorietà dell'azione penale, ma si sa che tutte le riforme si sono arenate sulla spiaggia dell'antiberlusconismo. Così, aggravante o non aggravante, i pm devono districarsi fra migliaia e migliaia di denunce. Non solo: se le inchieste vanno a passo di lumaca i processi arrivano il più delle volte con ritardi inammissibili. Si può anche prevedere l'ergastolo per uno stalker ma si deve poi giungere ad una sentenza, definitiva, in un periodo di tempo accettabile. Se così non è la vittima diventa sempre più vittima e il carnefice sempre più sfrontato.
Certo, il legislatore ha previsto dei paletti. Nel tentativo di arginare il fenomeno e di scongiurare omicidi che spesso sono annunciati da una scia dolorosa di minacce, violenze, aggressioni. Ma si tratta appunto di cerotti: va bene l'arresto obbligatorio in flagranza di reato, ma onestamente non sarà facile documentare in tempo reale l'abuso. Ecco allora un'altra barriera protettiva: l'allontanamento d'urgenza dell'uomo violento. D'accordo, ma chi vigilerà sul rispetto dell'ordine? Il rimando al mitico braccialetto elettronico che già ha dato pessima prova sul polso e sulla caviglia dei detenuti ed è costato uno sproposito al nostro sistema penitenziario - più che braccialetti parevano bracciali di Cartier- non promette nulla di buono. E anche l'obbligo di informare la vittima sull'andamento del processo è lodevole, ma in un contesto malato può diventare assai pericoloso, come una freccia avvelenata. È un classico del nostro orrore metropolitano: l'orco torna, in attesa dell'udienza preliminare o del dibattimento o di altro ancora, al piano di sopra. La donna lo sente, forse lo incontra al mattino in ascensore, ogni passo diventa un incubo. Bene, una letterina con i timbri giusti dell'autorità che le spiega quel che sta succedendo verrà presa come un'estrema forma di oltraggio; l'orco dovrebbe stare in cella, a scontare la condanna irrevocabile.

E invece indossa la routine, facendosi scudo della presunzione di innocenza fino alla cassazione. Il decreto è un bel biglietto da visita per il parlamento, speriamo che a bocciarlo non siano i titoli della cronaca nera.

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