Attaccatelo all'album, adesso. È ora, solo ora, che David Beckham diventa una figurina. È stato vero fino all'ultimo: giocatore, atleta, sportivo prima di essere bello, ricco e glamour. Lascia il calcio l'uomo che ha costruito per primo il nuovo modo di essere calciatore. Giusto, non sbagliato. Perché Beckham è molto meglio di come è stato raccontato, merita più rispetto di quanto glien'è stato dato. Basta con lo Spice Boy. Non si resta per 21 anni nell'Olimpo dello sport solo perché hai una bella faccia. Beckham è stato un vincente: campionato inglese, una Champions, campionato in Spagna, in America, in Francia. Alza un trofeo e sorridi ai fotografi. Milioni di milioni, tra stipendio, sponsor, comparsate, libri, magliette vendute. Che male c'è? Nessuno. Beckham ha portato a spasso la sua epoca, senza bisogno di essere accompagnato. Aveva un talento, l'ha sfruttato. Aveva una bella faccia, l'ha sfruttata. Ha messo talento e faccia insieme e li ha sfruttati entrambi.
Perché lo sport è sempre stato spettacolo, show, gossip: lui ha solo cavalcato la sua era e l'ha trasformata in un eterno reality in cui ha vissuto senza recitare e senza doversi mai vergognare. «Non è sempre facile vivere come David Beckham, ma a me piace», ha raccontato qualche tempo fa.
Nella leggenda del pallone ci entra chiedendo permesso. Ci sta, perché è stato forte, perché ha trasmesso qualcosa, perché ha dimostrato di essere più di una campagna pubblicitaria. Nel 2007, quando lasciò l'Europa per andare negli Stati Uniti, lo raccontarono come un fallito, uno che a 32 anni attraversa l'Oceano per monetizzare la popolarità extrasportiva, per lanciarsi definitivamente nel cinema e nella tv. Sbagliato. È andato lì per giocare e per vincere e siccome ha giocato e ha vinto, in Europa c'è pure tornato. Al Milan e ora al Paris Saint Germain. Gratis. L'uomo odiato perché icona del calcio miliardario s'è tolto lo sfizio di giocare solo per sé: stipendio in beneficenza. Sì, sì, si sente già il coretto dei nemici a ogni costo: «Vabbè, ma con tutto quello che ha guadagnato».
Vero. E gli altri? Dove sono quelli veri, quelli che giocano per la bellezza del pallone? Dove sono i bambini infiniti? È più puro lui di molti altri, più sobrio lui con i tatuaggi, con la storia del tanga della moglie indossato nell'intimità, con i contratti per essere immagine di decine di prodotti. Beckham lascia il calcio sconfiggendo i suoi nemici. Quelli che non l'hanno riconosciuto degno di essere tra i top, solo perché vedevano in lui ogni vizio della modernità, del capitalismo, della ricchezza. David è stato trattato come il simbolo del nulla e invece ha riempito molto. Il calcio difficilmente avrà uno che ha personificato il business come lui, ma che non ha mai tradito lo spirito dello sport: serio, disciplinato, corretto, sorridente. Forse è questo che l'ha fregato un po'. Perché aveva le caratteristiche apparenti del maledetto e però si comportava da bravo ragazzo.
Sempre la storia dell'uomo copertina. Patinato e pettinato. Sempre la storia di Beckingham Palace, delle 16 stanze, 14 auto, 2 cavalli, più una mezza dozzina di macchine. Lui e la moglie, ricca, bella, in vista. Due che hanno fatto esaurire le memory card dei paparazzi a botte di scatti in giro per il mondo. Sempre un sorriso. Avrebbe dovuto essere più scontroso per essere rispettato. In vent'anni gli hanno sezionato la vita, lui li ha fatti accomodare e così ha pagato il pegno. Hanno fatto credere al mondo che Beckham fosse solo quello. Mai che qualcuno si chiedesse: ma come gioca? Bene, ecco come gioca. Bisogna trovarlo in Inghilterra uno con un piede destro come il suo. Disse George Best: «Non sa calciare con il sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare, non segna molto. A parte questo è a posto». La verità è che a Beckham calcisticamente il solo piede destro gli è bastato. Chi ha vinto tra lui e Best alla fine? David lascia a 38 anni, George a 25 era già finito.
I titoli di coda scorrono adesso. I miliardi guadagnati in una vita di calcio non si possono contare. Ma sono una parte. David è un'allegoria. David è un'icona. L'immagine del calcio che stacca il Novecento e s'infila negli anni Duemila. La prima star realmente globale: la sua maglia la trovi sulle bancarelle di Milano, di New Delhi e di Pechino. Dentro la globalizzazione, però, Beckham ha infilato un sacco di cose. In una sola carriera è riuscito a giocare nel Manchester United, nel Real Madrid, nel Milan, nei Los Angeles Galaxy, nel Paris Saint Germain. Uno così è un campione. Punto.
La figurina viene dopo. Chi l'ha ridotto ad avatar del calcio ha solo cercato di ammazzarlo. David l'ha sconfitto. Lascia ora, ancora amato, felice, integro. «È il momento giusto».
È un Grande Gastby, ma vincente: uno che ha capito quando è finita la festa. Ha giocato, esultato, sofferto, ha vinto. L'ultimo trofeo pochi giorni fa. Non ha avuto bisogno del trucco, perché la sua faccia è invecchiata sul campo. Da giocatore, da sportivo, da uomo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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