Si parla spesso di politica industriale. Si sostiene che proprio la sua mancanza ci stia mettendo nei pasticci. Quando si va a vedere cosa contenga questa nobile etichetta scappano tutti. È diventato un argomento buono per i convegni, pessimo per i governi. L'esempio più clamoroso è l'energia. Anche un bambino capisce che la scelta di abbandonare il nucleare (voluta dagli italiani con un referendum) è uno dei maggiori pesi che gravano sulla nostra manifattura. L'Italia e la sua industria pesante sono energivori, ma continuiamo a sperare che ci arrivi dal cielo. Ci siamo abbandonati all'emotività. Al timore. Alle paure spesso alimentate più dall'ideologia che dalla realtà: l'atomo è pericoloso, certo che lo è. Il caso Ilva è identico. L'industria dell'acciaio inquina. Sai che scoperta. Ma se Taranto diventa Fukushima siamo fritti: chiudiamo tutto e facciamo prima.
Per questo banale, banalissimo motivo oggi dobbiamo salvare il soldato Corrado Clini. Il ministro dell'Ambiente lotta come un leone per far prevalere un po' di ragionevolezza, in un contesto in cui sembra che tutti abbiamo perso la testa. Ha fortemente voluto il decreto del governo che permette la riapertura dell'Ilva e la conseguente bonifica nei prossimi tre anni. Ieri si è permesso di dire, in un governo che davanti ai magistrati trema come una foglia: «Io sto alla legge ed è quella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale che deve essere rispettata da tutti. Se qualcuno non vuole rispettarla, non è una questione di cui devo occuparmi io. A me interessa far ripartire il risanamento».
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