Due poltrone per uno: la vera battaglia all'interno del Pd - sotterranea ma non meno cruenta, e destinata a segnare i mesi che ci separano dal congresso - si combatte su un dilemma apparentemente formale, ma decisivo. Il prossimo segretario del partito sarà anche, come prevede lo statuto, il candidato premier alle prossime elezioni? Oppure si tornerà a separare le due cariche? Perché una cosa è certa: il futuro politico di Matteo Renzi si decide a questo bivio. Il sindaco di Firenze potrà anche arrivare a Palazzo Chigi ma, se vuole rimanerci, dovrà avere un partito strutturato, disciplinato e fedele alle sue spalle.
Renzi non ha ancora sciolto la riserva, un po' perché il suo terreno di gioco preferito è la tattica, e soprattutto perché troppe incertezze gravano sull'immediato futuro, dalla durata del governo alla stessa convocazione del congresso, che in molti, ormai, danno per già slittato a febbraio. Ufficialmente, il sindaco di Firenze ha sempre negato di ambire alla segreteria, ma non è un segreto che gran parte dei suoi prema per l'opzione opposta. E non è nemmeno un segreto che gli altri - cioè il variegato mondo degli avversari di Renzi, oggi raccolti intorno a Epifani e rapidamente trasformatisi da smacchiatori del giaguaro a tempo pieno in fervidi sostenitori del governo Letta-Alfano - insistano invece perché il Pd separi nettamente le due cariche.
La storia politica del Dopoguerra non lascia spazio a dubbi: la segreteria del partito era il centro indiscusso del potere. A piazza del Gesù si facevano e disfacevano i governi con la stessa disinvoltura con cui ci si cambia d'abito, e l'inquilino di palazzo Chigi - fosse pure Andreotti - sapeva bene che difficilmente sarebbe durato più di un anno, un anno e mezzo. La controprova sta nel fatto che i due presidenti del Consiglio più longevi, De Gasperi e poi Craxi, erano anche segretari dei rispettivi partiti.
Nella Seconda repubblica la sinistra ha replicato il modello democristiano, con esiti a dir poco disastrosi: Prodi cadde perché non aveva un partito alle spalle, D'Alema fu costantemente ostacolato da Veltroni, divenuto segretario dei Ds, Amato e Rutelli passarono senza lasciar traccia, come ospiti casuali. Fu proprio Veltroni a volere che nell'atto di nascita del Partito democratico ci fosse anche il doppio incarico: come del resto avviene in tutta Europa, e come accade da vent'anni anche nel centrodestra italiano.
Il motivo per cui Renzi deve conquistare la segreteria del Pd, se davvero vuol governare l'Italia, è lo stesso per cui i suoi avversari insistono nel separare le cariche. «Dobbiamo disgiungere la segreteria dal premier - ha detto per esempio D'Alema l'altro giorno - perché abbiamo bisogno di un segretario che non usi il partito come trampolino per la premiership. Abbiamo bisogno di un partito con una identità, che sostenga un candidato che non sarà del partito, ma della coalizione».
«Coalizione» è qui la parola magica cui bisogna prestare attenzione, giacché è proprio sulle coalizioni che la sinistra si è sempre sfracellata. O perché erano troppo ampie, come l'Ulivo e l'Unione, e dunque si frantumavano in pochi mesi, oppure perché erano troppo ristrette, come i Progressisti di Occhetto e quelli di Bersani, che infatti ammisero la propria insufficienza promettendo entrambi alleanze future con il centro. La «vocazione maggioritaria» di cui parlò Veltroni quando nacque il Pd segnalava proprio questo problema, e ne indicava la soluzione: per vincere le elezioni e governare occorre un partito inclusivo, articolato e rappresentativo, che sia in grado di conquistare una solida maggioranza parlamentare e poi, una volta al governo, di realizzare il programma senza subire ricatti e condizionamenti.
Vocazione maggioritaria e identità fra segretario e premier sono dunque due facce di una stessa medaglia.
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