Roma - Dopo tanto penare, alla fine la ministra ha tirato i remi in kayak: onore al merito, dovuto a chiunque tolga il disturbo. Ma quanta fatica. Più che teutonica di Nord-Vestfalia, renana di confine con le Fiandre, Josefa Idem negli ultimi giorni, forse a sua insaputa, sembrava nata a Ceppaloni. Con tutto il rispetto per Clemente Mastella, che quando scoccò la sua ora seppe dimettersi con dignità e (si fa per dire) risolutezza. E dire che nel gennaio del 2008 la questione tenne in ballo un intero governo di centrosinistra, l'ultimo, che difatti fu trascinato dalla corrente mastelliana fino alle dimissioni di Prodi.
Il precedente non sembra beneaugurante, anche se la ministra delle Pari opportunità non rinuncia a quel po' di pathos che volentieri ci saremmo risparmiati. «Come ministra - dichiara in una nota scritta dopo le due ore più tremende della sua effimera vita politica - ho tenuto duro in questi giorni perché in tanti mi avevano detto che questi momenti fanno parte del gioco. La persona Josefa Idem già da giorni, invece, si sarebbe dimessa a causa delle dimensioni mediatiche sproporzionate della vicenda e delle accuse aggressive e violente, nonché degli insulti espressi nei suoi confronti (sic!). Quando sono salita dal presidente Letta avevo già maturato la decisione di dimettermi, ma ho comunque voluto condividere con lui l'attenta valutazione del quadro venutosi a creare ed esporgli la scarsa rilevanza di quanto imputatomi. Confermo quindi le mie dimissioni augurando eccetera eccetera». Riportiamo la versione integrale della nota di commiato in quanto ci sembra ben esprimere, come specchiandoci nei nostri difetti peggiori, l'effetto rovinoso che questi anni trascorsi nel Belpaese devono aver avuto sulla Idem. Vittimismo, egotismo, utilizzo schizofrenico e un po' spropositato ora della prima ora della terza persona: insomma, il campionario consueto della piagnucolante isteria dei politici, quando colti in fallo. Resa ancora più grottesca dalla difesa pervenuta da Telefono rosa o da quella (più interessata) del pidino Scalfarotto. Ma il resto del mondo, Nichi Vendola compreso, riteneva che le dimissioni fossero un «atto dovuto». Per il semplice sospetto di aver fatto la «furbetta», poi suffragato dai fatti e ammesso in versione autoassolutoria dall'interessata.
In fallo, evasione fiscale e abusivismo, la supercanoista è stata presa, senza che il chiarimento con il premier Letta potesse aggiungere o togliere nulla a una difesa cavillosa e inutile, che in Germania la Nostra (?) atleta si sarebbe senz'altro vergognata di portare così per le lunghe. Addirittura presentandosi a una conferenza stampa dentro Palazzo Chigi, l'altro giorno, assistita dal proprio avvocato. Non sono così mancati momenti di tensione, nell'ora abbondante di «chiarimento», tra la cocciuta Josefa e il premier (dicono persino un po' esterrefatto dell'ostinata inadeguatezza della ministra a comprendere come la difesa di un'irregolarità potesse mettere in imbarazzo un governo che già si mantiene con lo sputo). La decisione di «portare a vedere le carte a Letta», come annunciato in un'intervista ai quotidiani e accettato dal premier per carità di patria, ha chiarito già in mattinata come il destino della Idem fosse segnato.
A Letta è toccato poi l'onere di salvare la forma, dopo l'annuncio che le deleghe del ministro saranno redistribuite all'interno del Consiglio di ministri. «Ho preso atto della volontà irrevocabile delle dimissioni.
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