S o di andare controcorrente, ma io difendo la Svizzera, che è e resta un esempio di democrazia, di tolleranza e di altruismo. No, non è xenofoba e nemmeno razzista, come molti hanno lasciato intendere commentando il voto dello scorso weekend. E come potrebbe esserlo un Paese che da sempre è capace di integrare un numero impressionante di stranieri? Che succederebbe se in Italia il 23% della popolazione fosse straniera? Ebbene, questa è la percentuale della Svizzera. Oggi, come ieri e, verosimilmente anche domani.
Già perché la Confederazione elvetica non ha deciso di chiudere le frontiere e tanto meno di espellere gli oltre 60mila frontalieri italiani che lavorano nel Canton Ticino. Il popolo svizzero ha dato mandato al governo federale di rinegoziare entro tre anni i trattati esistenti e di introdurre leggi che fissino dei contingenti di manodopera in funzione «agli interessi globali dell'economia elvetica». Come peraltro avviene negli Stati Uniti, in Canada, in Australia.
E allora dov'è lo scandalo? Perché l'Unione europea è tanto preoccupata? Sarò all'antica ma per me la democrazia è un valore assoluto, intoccabile, sacrale. E va rispettato. In teoria, Bruxelles ha una visione più... elastica; ritiene superflua la legittimazione popolare e non può certo tollerare gesti di ribellione o addirittura di revisione di accordi esistenti.
Il voto elvetico è «scandaloso» perché anticipa il sentimento che un numero crescente di popoli europei prova nei confronti dell'Unione europea e delle organizzazioni sovranazionali. Un sentimento che, non dubitatene, troverà piena espressione alle prossime elezioni europee premiando partiti e movimenti euroscettici in Italia, in Olanda, in Francia, in Gran Bretagna.
Gli svizzeri, come tanti popoli europei, pur vivendo nel benessere, sentono di non essere più pienamente sovrani, di non controllare più il proprio destino. Vedono consuetudini e contratti sociali che sembravano incrollabili erodersi continuamente, secondo meccanismi invisibili eppur implacabili. Abituati a vivere in un Paese dove le regole della convivenza e della responsabilità politica sono chiare e conclamate, si accorgono di essere meno liberi e non più padroni del proprio destino. Una sensazione che è particolarmente evidente sul mercato del lavoro, soprattutto nelle zone di frontiera, e alla guida di grandi società, che sono ancora nominalmente svizzere ma che in realtà sono condotte e controllate da stranieri. In Svizzera non c'è crisi, ma c'è, da tempo, un disagio fortissimo, un senso di smarrimento, un bisogno di affermazione di identità che ora emerge prepotentemente. Non è stato un voto razionale, ma emotivo. Non è stato un voto «contro» ma un voto «per»; sì difendere se stessi e la propria identità. Per difendere il diritto di essere liberi e democratici. Un voto storico, eppure forse inutile o addirittura controproducente.
Poche settimane fa il Commissario al mercato interno Ue, Viviane Reding, aveva avvertito il popolo elvetico che «la Svizzera non può scegliere ciò che le piace» con dichiarazioni di rara arroganza. E ora l'Unione europea non potrà certo permettere che la strategia di imbrigliamento della Confederazione elvetica (sprezzantemente additata come «un membro passivo» dell'Ue dal tedesco Martin Schulz, quello del «kapò» di berlusconiana memoria) possa essere rimessa in dubbio. Il fuoco di sbarramento è già iniziato tramite pressioni, minacce, ricatti per ora solo allusivi. Sia chiaro: in Svizzera gli ambienti economici non vogliono la rottura con l'Ue, con qualche solida ragione. Ma il gioco, visto da Bruxelles, è più sottile e l'obiettivo facilmente intuibile: costringere la Svizzera a trovare un compromesso, a recedere. E così verosimilmente sarà.
Non abbiate dubbi: l'oligarchia europea si prodigherà per trasformare questa sconfitta in una vittoria per dimostrare - non solo agli svizzeri - di essere più forte della democrazia ovvero di poter piegare alla propria volontà anche quei popoli, che ancora si illudono di essere liberi e sovrani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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