Politica

Il tempo perso? Lo pagheremo

Nelle sale operative vicine a Piazza Affari lo chiamano in vari modi. Per esempio «governo barzelletta». O, come lo potrebbe battezzare anche la Lepre marzolina di Alice nel Paese delle Meraviglie, un «non-governo». È l'esecutivo Letta-Alfano. Giudizio sprezzante che i banchieri milanesi sostengono imputando al premier l'incapacità di incidere sulle uniche tre riforme che servirebbero, subito, all'Italia: giustizia, burocrazia e lavoro. Nonché la debolezza dei suoi ministri nel cincischiare da nove mesi con l'Imu piuttosto che la spending review; o nel perdersi di fronte a riforme divisive quali lo jus soli e le unioni civili. Eppure in questi stessi mesi il mercato finanziario sta raccontando una storia tutta diversa e ieri il principale indice della Borsa italiana è tornato sopra i 20mila punti. Non accadeva dal 5 luglio del 2011, due anni e mezzo fa. Dal giuramento di Enrico Letta, l'indice ha guadagnato il 30%. E lo spread tra i rendimenti dei Btp e quelli dei bund tedeschi è calato di 100 punti, lasciando i dintorni di quota 300 per quelli più rassicuranti dei 200. Che spiegazione c'è? Perché il non-governo - con il suo calo del Pil dell'1,8%, il debito pubblico al nuovo record di 2.104 miliardi, il 41% di disoccupazione giovanile e il 12,7% totale - ispira questo rialzo sfrenato del mercato azionario?
Le risposte sono tante. La prima è che si tratta di una scommessa sulla ripresa: o questa si farà sentire, o anche il listino è destinato a sgonfiarsi in primavera. La seconda è che la Borsa di Milano a quota 20mila è tuttora sotto del 55% dai suoi massimi del 2007, mentre sia gli Usa che il resto d'Europa hanno ampiamente superato i loro precedenti record. Ci sono poi le nuove regole di Basilea3 sui bilanci bancari, molto tecniche ma in grado di spingere al rialzo un settore che domina la piazza azionaria milanese. Ma a parte le questioni macroeconomiche e tecniche, c'è un'altra e più convincente spiegazione per questa (apparente) contraddizione: al mercato del governo (...)

(...) dell'Italia non importa granché. Non è stato così nell'estate-autunno 2011, quando è ormai assodato che a far schizzare lo spread verso i 600 punti sono state le banche tedesche che hanno scaricato qualche centinaia di miliardi di Btp per condizionare le scelte europeiste dell'Italia. Né è stato così nel febbraio scorso, quando l'ingovernabilità del dopo-elezioni non ha mosso di molto né la Borsa né il Btp. Il governo del Paese, o la sua stabilità, non c'entrano con questa storia. Nel bene e nel male. Il fatto è molto più prosaico: la liquidità (resa abbondante dalle politiche delle banche centrali) non rende più nulla. Bisogna inventarsi qualcosa. Con i tassi d'interesse a breve vicini allo zero, chi cerca un rendimento decente ha solo due possibilità: o i Btp 10 anni per portarsi a casa un misero 3,8% annuo, o se vuole qualcosa di più deve andare in Borsa. Ed ecco spiegato il boom di listino e spread, semplice risultato della riallocazione degli asset di chi vive di rendita (non solo i ricchi, ma anche i fondi pensione, per esempio).
Per cui non creda questo governo di avere meriti. Né il prossimo di poter capitalizzare chissà quale successo. Per adesso va così. Ma il tempo che stiamo buttando via prima o poi lo dovremo pagare caro.

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