La Liga Veneta è nata prima di quella lombarda, ricordano gli storici padani. A Venezia da 15 anni si chiude la manifestazione più importante del Carroccio, la marcia dalla sorgente alla foce del Po. Il Veneto ha eletto trionfalmente governatore Luca Zaia e da tempo le camicie verdi toccano percentuali che le roccaforti lombarde si sognano: Treviso, per esempio, è la città con più voti al Carroccio, più amministratori locali e più militanti. E nel Nordest non è arrivato un euro di quelli maneggiati da Francesco Belsito.
Questo dunque potrebbe essere il momento buono per conquistare la rappresentanza cui il Veneto aspira da tempo, la poltrona che è stata sempre e solo di Umberto Bossi. Il candidato è pronto: lo stesso Zaia. Ex ministro, giovane, presente sul territorio e lontano tanto dai «cerchi» quanto dai «barbari»: una figura di mediazione in attesa che le ferite interne al partito si cicatrizzino.
Il tam tam è già cominciato. Il suo nome è stato lanciato da Gian Paolo Gobbo, leader dei leghisti veneti, trevigiano come Zaia e sindaco della Marca. E qui s’inciampa subito nel primo intoppo. Gobbo è tra i fedeli di Bossi e ha appena perso il congresso provinciale, vinto dagli uomini di Roberto Maroni. Il quale ora punta dritto a far fuori lo stesso Gobbo dalla segreteria regionale della Liga sostituendolo con Flavio Tosi. In questo momento, dunque, un’investitura targata Gobbo non fa comodo a Zaia. Il quale ha perciò ringraziato della fiducia e declinato l’invito: «Il Veneto ha bisogno di un governatore a tempo pieno e non part-time, per questo non mi interessa una candidatura alla segreteria della Lega», ha detto.
Il Carroccio in Veneto non è un monolite, come lascerebbero intendere i consensi vicini al 30 per cento raccolti in larghe zone. Nel partito convivono tante anime e non esiste un leader unico capace di rappresentarle tutte. Ci sono i bossiani di Gobbo e di Franco Manzato, assessore regionale all’Agricoltura. I sindaci come Massimo Bitonci e Flavio Tosi, uno bossiano l’altro maroniano. Personaggi da tempo sulla breccia come Manuela Dal Lago, vicentina e ora reggente del partito assieme a Calderoli e Maroni, imposta a Bossi dai veneti del consiglio federale. O come Piergiorgio Stiffoni, trevigiano pure lui, senatore e contabile del partito assieme a Francesco Belsito (e Roberto Castelli).
Figure storiche come Giampaolo Dozzo, capogruppo alla Camera al posto del «cerchista» Marco Reguzzoni, o Stefano Stefani, orafo vicentino, fondatore della «Padania» e nuovo tesoriere del Carroccio, amico della prima ora di Bossi pur non essendosi mai mescolato con il «cerchio magico». Cui invece partecipano i veronesi Federico Bricolo, capogruppo del Carroccio al Senato, e Francesca Martini, sottosegretario alla Sanità nell’ultimo governo Berlusconi.
Ma la faccia più tipica della Lega in Veneto resta quella di Giancarlo Gentilini, prototipo del sindaco-sceriffo, che anche ieri ha invocato pulizia: «Dopo Renzo Bossi tocca alla sindacalista, alla Rosi Mauro, perché quel cerchio magico va distrutto in tutti i suoi elementi. Oserei dire pulizia etnica, radicale».
I leghisti veneti, a metà tra sparate dialettali e capillare presenza nelle istituzioni, sono sempre andati ognuno per conto loro. Da qualche tempo si è rafforzata la personalità di Tosi che ha scompaginato gli equilibri. È uno dei leghisti più vicini a Maroni e più presenti in tv. Quando uno dei suoi luogotenenti è finito in uno scandalo (la gestione dell’azienda di trasporto pubblico locale), l’ha costretto alle dimissioni da un giorno all’altro.
Un politico abile, che a Verona raccoglie consenso trasversale anche nei più consolidati centri di potere locale e in regione sta tessendo una tela che apparirà chiara al prossimo congresso del Carroccio veneto. Ma non avrà gioco facile nella scalata al partito. L’accusa contro di lui è la stessa che viene rivolta a Maroni. Volere spaccare il partito. Il monolite è in frantumi, in Veneto come in via Bellerio.
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