Invocare la ritirata è un’offesa ai soldati

Invocare la ritirata è un’offesa ai soldati

Ogni volta che un nostro soldato cade in Afghanistan, si ripete lo stesso stanco copione: l’estrema sinistra, l’Italia dei valori, e ora perfino, in toni più sfumati ma egualmente significativi, un importante rappresentante della Cei come monsignor Bregantini, chiedono il ritiro del nostro contingente. Anche Bossi, come tutti sanno, non è entusiasta della missione, ma almeno riconosce che la via per concluderla è già stata tracciata dal presidente Obama e che l’Italia vi si deve attenere.

L’aspetto più irritante di queste richieste è che non tengono alcun conto né della realtà sul campo, né della tabella di marcia già stabilita, e men che meno dell’interesse nazionale: si tratta di pura demagogia, di tentativi di speculare sul cordoglio nazionale per l’ultima vittima del conflitto, non tenendo conto che - come ha detto La Russa - «sarebbe davvero un insulto non portare a termine la missione in Afghanistan con la stessa intensità e dedizione con la quale Matteo l’affrontava».

Naturalmente è legittimo chiedersi che cosa comporti «portare a termine la missione». Gli obbiettivi da raggiungere sono sostanzialmente due: primo, stabilizzare il Paese e respingere il tentativo dei Talebani di assumerne il controllo fino a quando il governo di Kabul non disporrà di un esercito e di un corpo di polizia capaci di provvedervi da soli; secondo, impedire che i fondamentalisti islamici conseguano sul campo una vittoria che avrebbe ripercussioni non solo strategiche, ma anche psicologiche incalcolabili a livello globale. Nonostante un successo solo parziale della grande offensiva americana nella provincia di Helmand, nonostante il tentativo dei Talebani di aprire un nuovo fronte nel nord del Paese, gli ultimi sei mesi hanno fatto segnare alla Nato indubbi progressi, tanto che il presidente Obama ha ritenuto di potere confermare la data del 31 luglio 2011 per l’inizio del ritiro, che dovrebbe poi essere completato entro il 2014. Di conseguenza, anche l’Italia ha potuto fissare un calendario provvisorio per riportare a casa i nostri uomini, in sintonia con gli alleati. Si tratta, ovviamente, di una tabella di marcia elastica, legata all’evoluzione del conflitto, come è quella americana: ma esiste, è accettata in sede Nato, e proprio perché possa essere rispettata, è necessario in questa fase non invocare assurde fughe o anche solo «ripensamenti» della missione, ma compiere il massimo sforzo per garantire il controllo del territorio. Il nostro contingente, grazie proprio alla dedizione di uomini come Matteo Miotto, ha fin qui così bene operato, che la provincia di Herat di cui abbiamo la responsabilità dovrebbe essere una delle prime a essere consegnate al controllo esclusivo del governo di Kabul.

Proprio per l’esemplare comportamento dei nostri soldati, per la loro capacità - riconosciuta a più riprese dal generale Petraeus - di coniugare l’azione militare con quella civile di assistenza alla popolazione, la ricaduta della partecipazione all’Isaf è stata fin qui molto positiva per l’Italia. Nonostante regole d’ingaggio più limitative di quelle di altri contingenti, abbiamo dato un contributo essenziale alla missione. Interromperla ora vanificherebbe tutti i sacrifici fatti, pregiudicherebbe il nuovo prestigio acquisito, sarebbe appunto un insulto ai nostri caduti.

È giusto piangere ogni morto, rendergli gli onori che merita, condividere il dolore dei familiari, ma un Paese che vuole avere un ruolo internazionale deve continuare comunque a onorare i suoi impegni. Ritirarsi appena le circostanze lo consentiranno è sacrosanto, ritirarsi anzitempo sotto l’impatto di un lutto sarebbe insensato.

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