«Io, comunista, e quel fascista che forse mi salvò la vita»

(...) Ecco, fin qui l’antefatto. Poi, c’è un signore che mi si avvicina alla Festa Democratica del Porto Antico, e mi dice che vorrebbe raccontare una storia su quella vicenda, che ha letto sul Giornale del 27 aprile di quest’anno.
Il signore ha il viso, lo sguardo, la voce e una capacità di commuoversi ancor oggi (parlando di storie di sessantasette anni fa), di una persona perbene. Ed è una persona assolutamente perbene. Almeno così mi hanno raccontato anche tanti suoi avversari, mai nemici, che se lo sono trovati di fronte nella loro storia amministrativa e di partito.
Il signore si chiama Renato Penzo ed è stato, oltre che mille altre cose nel Partito, quel Partito, anche consigliere comunale e tesoriere del Pci, del Pds e dei Ds, fino alla confluenza nel Partito democratico. Sia ben chiaro: Penzo è tutto fuorchè un pentito, rivendica la sua storia, è iscritto all’Anpi con tutti i bollini e le tessere a posto, sa tutto della Resistenza a Genova. E, parlando di chi scelse di salire in montagna, usa l’espressione «andarono a fare il loro dovere», frase che dice tutto. Così come, ricordando il suo papà operaio, dice con orgoglio «che non prese mai la tessera», sottinteso del Partito Nazionale Fascista, ma che «ebbe la fortuna di avere una professionalità tale da poterselo permettere». E lui stesso, da bimbo, non fu «mai balilla perchè i miei genitori, con uno sforzo e un sacrificio economico enorme, mi mandarono a scuola dalle suore».
Vi racconto e insisto su tutto questo perchè è importante dire che Penzo non è un fascista, che non si è mai pentito delle sue idee comuniste - a mio parere sbagliate, ma non è questa la sede per discuterne - e non ha mai rinnegato la sua storia. Anzi, lui che da segretario della sezione Cabrar del Pci, quella dell’Italsider, visse in prima persona la vicenda di Guido Rossa e che fu una delle fonti primarie degli studi di Giampaolo Pansa sul terrorismo, ha voluto contestare personalmente al giornalista alcune delle sue scelte recenti, senza peli sulla lingua: «Ma con rispetto. Non comprendo quelli che lo osannavano ieri e lo insultano oggi».
Eppure, nonostante il fatto che - degregorianamente - Penzo è uno di quelli che «sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai», uno che non tradisce, uno che non salta fossi, uno che rivendica la sua coerenza con la sua storia, tutto ciò non gli impedisce di raccontare anche un’altra storia. Che è quella dei bambini che giocavano nelle strade e nelle piazze di Cornigliano verso la fine della guerra.
Renato, classe 1936, verso fine agosto, inizio settembre del 1944, era un bimbo di otto anni. Spesso, in bicicletta, a piedi o in tram andava a Cogoleto o a Vesima, dove in tempi di guerra si prendeva l’acqua marina, la si faceva bollire e si otteneva l’oro bianco: il sale. Poi, veniva un signore dal Basso Piemonte e lo comprava per poche lire o lo scambiava con la farina delle sue campagne.
Renato abitava in via Verona, in un palazzo che faceva angolo su piazza Umberto primo, proprio a fianco della casa di Angelita e Tino Cereseto. Al centro della piazza di Cornigliano c’era l’albergo del Serafin, prima sede del comando tedesco e poi dei partigiani. Un albergo famoso, citato addirittura da Gilberto Govi in una delle sue commedie come uno dei più lussuosi hotel di Genova.
I Cereseto erano l’unica famiglia targata «fascista» di via Verona e della piazza. Ma, ovviamente, come impongono l’umanità e la natura, fra bambini, quando si gioca, non si chiede cosa fanno i genitori, come la pensano, che tessera hanno, se «hanno fatto il loro dovere», come dice sempre Penzo per identificare i partigiani. E quindi anche i Cereseto giocavano con gli altri: Angelita faceva fare a Renato il bimbo quando giocavano alle mamme. E, quando si giocava a calcio, Tino, che era uno dei più grandi, voleva Renato Penzo in porta. «Porta per modo di dire, a volte era il tombino di una fognatura...».
Ecco, in questo quadro, un giorno di quella fine estate, in via Verona e nella piazza, ci fu un rastrellamento. Alcuni, fra cui il barbiere, vennero portati via. Lui tornò solo dopo alcuni anni, malato di tubercolosi, contratta nei campi di sterminio nazisti. Altri non tornarono.
Ma, contemporaneamente, la mamma di Renato, sentendo dei rumori, si rintanò nella cappelletta del Sacro Rosario, stringendo il bimbo. E Tino Cereseto le disse in genovese: «Voialtri state fermi lì, calmi». Salvo poi, alla fine del rastrellamento, richiamarli: «Ora andate». Penzo ricorda come se fosse oggi: «Più tardi la mamma mi raccontò che era stato Cereseto a proteggerci».
Resta solo una domanda. Perchè Penzo si è deciso a raccontare questa storia al Giornale e solo oggi: «Vede, Lussana, non sapevo che fine avesse fatto Tino. Potevo sospettarlo, ma mamma non me lo disse mai. Ho letto la storia sul Giornale e ho letto un suo articolo dove non la metteva sul politico, ma sull’umanità.

E ho voluto raccontare questa storia per dimostrare come lo stesso giorno si possano fare atti deplorevoli e atti quasi eroici. Dovevo raccontarlo per omaggio alla verità e all’umanità». È proprio quello che chiedevamo. E ringraziamo Penzo, un uomo perbene. Che la pensa diversamente da noi. Ma perbene, umano. Uomo.

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