Se poi uno si chiede che cosa ci faccia sul palco di Sanremo, lui risponde senza fare una piega: «Appena cinque mesi fa non ci avrei mai pensato». Di certo Eugenio Finardi si aggira tra studi radiofonici, sale stampa e palco dell’Ariston come fosse lì per caso. C’è. Ma non sembra. Ha cantato due volte, di cui la prima senza brillare, il brano con il testo più complesso del Festival, quel E tu lo chiami Dio che in altri momenti (leggasi: senza tanga di Belén o celentanosi cronica) sarebbero diventati scintille di discussione. E ieri sera è salito in scena con Noa in quello che è stato il duetto più alto di tutti. Per chi almeno aveva bisogno di prendersi una pausa dal glamour.
Caro Finardi, sta per compiere sessant’anni. Chi glielo ha fatto fare di prendere il biglietto per Sanremo?
«Beh di certo non è una passeggiata».
Per usare il titolo di un suo brano, qui sembra un extraterrestre.
«Lo ammetto: qui mi sento un po’ extraterrestre».
E allora perché mettersi a fare la gara con i terrestri?
«In realtà da qualche tempo sono diventato anche editore delle mie canzoni. E quindi qualche mese fa, quando mi sono ritrovato questo brano scritto dalla cantautrice molisana Roberta di
Lorenzo, ho pensato di offrirlo ad altri cantanti».
A chi lo ha proposto?
«Anche a Gianni Morandi. Ma lui, dopo aver sentito come interpretavo il provino, mi ha detto: perché non lo canti tu?».
La risposta?
«Ho detto che per me era troppo “alta”. E lui mi ha zittito: non hai il coraggio di interpretarla. Così ho fatto un esame di coscienza ed eccomi qui: rifiutare un’offerta del genere sarebbe stato un po’ vigliacco».
Però è qui come interprete. E non come cantautore. Magari sembra riduttivo.
«Macché. Io da interprete ho vinto anche il Premio Tenco, non ci vedo nessuna limitazione. E, anzi, a marzo pubblicherò anche un disco di musica classica contemporanea, una delle mie grandi passioni».
E tu lo chiami Dio ha un’atmosfera inconsueta.
«È costruita in “la”, che mi aiuta a fare quella che chiamo “apertura ieratica”. Musica ribelle a esempio è in “Si”, che è più bellicosa».
Se parla così, da musicista, sembra davvero un extraterrestre. O un pensatore. In fondo nel suo nuovo triplo cd Sessanta c’è un inedito che si intitola Nuovo umanesimo.
«È ciò di cui abbiamo bisogno. Dopo gli anni Settanta, che ho trascorso politicamente schierato a sinistra, ho iniziato a evolvermi. Sono figlio di un americano che era un liberal montanelliano. Aveva fatto la Bocconi. È morto nel 2003 a 94 anni e poco tempo prima di andarsene mi ha detto: “Stiamo diventando un casino, la finanza è diventata un gioco d’azzardo”. Aveva ragione».
Ma adesso?
«Bisogna tornare all’uomo. All’umanesimo. Le ideologie sono finite. E i centri commerciali sono sempre pieni nonostante noi siamo sempre più poveri. Sono più povero di quanto fosse mio padre. E i miei figli saranno più poveri di me».
Una bella delusione per chi ha creduto in ben altro.
«Siamo il risultato di un tradimento di classe. La borghesia ha tradito. Ma anche il proletariato lo ha fatto, diventando una massa consumista. Quindi è necessario spogliarsi delle vecchie uniformi ideologiche e cercare di uscire vivi da questo naufragio delle idee».
Sanremo aiuta a tornare a galla? Elisabetta Canalis l’ha persino annunciata sul palco come Ugenio Finardi.
«Sì, ho sentito. E ho sorriso perché non mi ha mica offeso. Colpa dell’emozione».
Va bene Finardi, e lei
«Quanto basta. La prima volta nell’85 ero in playback. Poi con Fazio ho vissuto un’edizione sperimentale. E ora sono nel mio Festival più severo di tutti. Un extraterrestre in un mondo non mio».
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