"Io, giornalista, a capo di una banda criminale" E Repubblica infanga un cronista del Giornale

A capo di una banda di feroci criminali arrestati dai carabinieri. Sei ragazzi che si atteggiavano e si facevano chiamare con i nomi dei personaggi della famigerata banda della Magliana. E a comandarli ci sarebbe Stefano Vladovich, cronista di nera del Giornale dal 1996

"Io, giornalista, a capo di una banda criminale" 
E Repubblica infanga un cronista del Giornale

A capo di una banda di feroci criminali arrestati dai carabinieri. Sei ragazzi che si atteggiavano e si facevano chiamare con i nomi dei personaggi della famigerata banda della Magliana. E a comandarli ci sono io, Stefano Vladovich, cronista di nera del Giornale dal 1996. Strabuzzo gli occhi, eppure sembra proprio così, lo leggo sulla prima pagina del sito Google.it, ma il pezzo in questione è sulla Repubblica.it. Com’è possibile, mi chiedo. No, non può esserci un mio omonimo in Italia, soprattutto nella mia stessa città, Roma.

Sarà un caso ma nel momento in cui leggo tutto ciò mi trovavo in un'aula di Tribunale, a Viterbo. Era l’11 marzo scorso, seguivo le fasi finali, in Corte d’Assise, per un duplice omicidio commesso a Gradoli, nel viterbese. Da mesi stavano sfilando decine di testimoni e, a dirla tutta, quell’udienza non era molto interessante. E così "smanetto" un po' sul web per vedere cosa succede nel resto del mondo. Vado avanti con la schermata del mio pc. Leggo il sommario che appare sulla pagina iniziale del più importante, e seguito, motore di ricerca internet: "Da Romanzo Popolare a Eroi Criminali" il titolo. "16 dicembre 2010 … - prosegue -. Il loro capo indiscusso era Stefano Vladovich, il Freddo del gruppo, ma anche altri erano chiamati come personaggi della banda della Magliana…". Sono incredulo ma comincio a capire quello che potrebbe essere accaduto.

La conferma arriva un clic di mouse dopo, quando mi collego direttamente al sito in questione: "La Repubblica.it, sezione La Repubblica@scuola". E leggo l’articolo per intero, o meglio quello che qualche studente pasticcione ha combinato e che qualcuno, ben più pasticcione di lui nella redazione web del noto quotidiano, ha fatto dopo. Ovvero messo in pagina uno scritto arrivato per posta senza effettuare il minimo, e doveroso, controllo giornalistico. Sul pezzo, firmato da un fantomatico "elguaje", si parte dal libro di Gianluca De Cataldo, Romanzo criminale, da cui sono stati tratti il film per il grande schermo e la serie televisiva Sky. Si parla dello spirito di emulazione di questi ragazzi arrestati dai carabinieri di Roma, bulli di periferia, zona Primavalle, tra i 18 e i 21 anni. I sei sono accusati, in seguito processati e condannati in primo grado, "per sequestro di persona - si legge su Repubblica.it -, estorsione, rapina, porto abusivo di armi, lesioni aggravate, tutto questo per imitare la banda della Magliana". Adesso viene il bello, si fa per dire. "Il capo indiscusso - continua la Repubblica - era Stefano Vladovich, il Freddo del gruppo, ma anche altri erano chiamati come personaggi della banda gli (sic) Abbatino, Libano e Scrocchiazzeppi". Capisco tutto. Il lettore-studente, nella smania di infilare sul sito della Repubblica un "suo" articolo, ha messo in scena un maldestro quanto tragicomico pastrocchio a base di copia e incolla. Il pezzo in questione, insomma, è un mio articolo uscito, come cita lo stesso apprendista cronista, "a luglio in un giornale romano".

La data, almeno quella, è giusta. L’articolo in questione, difatti, era uscito sul Giornale del il 31 luglio 2010 a pagina 13 delle Cronache nazionali (non della Cronaca di Roma). Tutto il resto coincide, persino alcuni frasi riprese (copiate) pari pari dal mio scritto. Un articolo messo di taglio in pagina dal titolo "Volevano imitare la Banda della Magliana. In manette a Roma sei bulli di periferia". E subito dopo la firma, la mia. L’incipit del pezzo è "Il Freddo era il loro capo indiscusso". Tutto chiaro? Prima la prendo a ridere, poi mi arrabbio. Soprattutto quando con il passare del tempo decine di amici, parenti e colleghi mi chiamano a tutte le ore per chiedermi se sono ancora "in libertà". Insomma, mi sento quasi uno zimbello. Possibile che nessuno in redazione, in oltre tre mesi dalla pubblicazione on line, si sia accorto dello svarione? Passa il tempo. Nel giugno scorso, e solo dopo un tentativo di conciliazione fallito, la Repubblica riesce a "deindicizzare" il mio nome su Google.it in riferimento alla notizia falsa quanto diffamatoria. Elguaje, mi viene da pensare, li ha proprio inguaiati. Il paradosso è che l’ha fatto su una sezione web ideata per fare scuola di giornalismo.

Eppure bastava poco per verificare nome e cognome del bandito citato nel pezzo. E sempre su Google. Per la cronaca (nera) "sono" ancora a capo di una banda di malviventi. Su Google il riferimento è stato cancellato, sul sito de La Repubblica no.

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