Io, magistrato, accuso: "Molti miei colleghi cercano solo lo show"

Cerqua, presidente alla Corte d’appello di Milano, denuncia i giudici che non applicano le leggi ma attaccano chi le fa. E avverte: "Le lotte di potere tra correnti affossano la nostra reputazione"

Io, magistrato, accuso: 
"Molti miei colleghi  
cercano solo lo show"

Pubblichiamo ampi stralci della postfazione di Luigi Domenico Cerqua al romanzo di Pierre Boulle (1912-1994) «La faccia o il procuratore di Bergerane» (edito da Liberilibri nel 2008). Cer­qua, presidente della quinta sezione della corte d’Appello di Milano,è studioso e docente univer­sitario di diritto penale e direttore della collana di studi «La biblioteca del penalista».  

La prova testimoniale costituisce un momento essenziale nella ricostruzione del fatto processuale, perché mediante le dichiarazioni dei testimoni si cerca di giungere alla verità processuale. È attraverso le «ombre del passato» (per usare le parole di Francesco Carnelutti) che il giudice perverrà alla ricostruzione del fatto: ombre sfocate, talora inattendibili, non per mala fede, che condurranno alla conoscenza di una vicenda passata, filtrata attraverso la personalità dei testimoni, deformata dalle inevitabili distorsioni dei meccanismi percettivi, dalle interferenze dei processi mnestici, dai pregiudizi e dagli stereotipi. La verità processuale: vengono alla mente le verità della signora Frola e del signor Ponza, suo genero, nel «processo» borghese di Luigi Pirandello, e la verità inafferrabile in quella dialettica di luci e ombre che pervade Rashomon di Akira Kurosawa.
Pericoloso il giudice che si lasci influenzare dall’opinione pubblica, che potrebbe incidere sulle sue valutazioni e indurlo, anche inconsciamente, a una ricerca parziale e ad una ricostruzione distorta dei fatti (...). Altrettanto pericoloso è il giudice che si senta investito di una missione, come quella di combattere il malcostume, la degradazione morale, il terrorismo. Ad altri questi compiti (...).
Molto più riduttivamente (se si vuole), spetta al giudice applicare la legge, espressione della volontà popolare, con equilibrio, intelligenza e sapienza. Sine spe, sine metu, si potrebbe dire. Lontane dalla sua professione dovrebbero essere le lusinghe del consenso popolare e della pubblicità.
Scriveva Jeremy Bentham che soltanto la trasparenza e la pubblicità dei processi potevano cancellare l’arbitrio e la prepotenza, e che soltanto il tribunale della pubblica opinione era in grado di dare forma umana e regola civile all’amministrazione della giustizia. Non v’è dubbio che la pubblicità del dibattimento costituisce nel nostro ordinamento un diritto fondamentale dell’imputato, oltre che espressione del controllo da parte della collettività del corretto esercizio del potere giurisdizionale. Ma è del pari certo che oggi i meccanismi del processo sono diventati sempre più contorti e difficili da comprendere e che il controllo si esercita soprattutto dall’interno delle abitazioni: il tribunale della pubblica opinione siede oggi in permanenza nei salotti, davanti alla televisione, dove ognuno, ancorché privo di nozioni di diritto e ignaro dei complessi meccanismi che regolano il processo penale, si sente autorizzato, alla vista di «avvincenti» spettacoli serali, a esprimere il proprio giudizio.
Le cronache italiane ci svelano l’immagine di un Paese nel quale diffuso è il sistema della corruzione, tanto più allarmante quando si insinua nelle aule dei tribunali, come nel dramma Corruzione al Palazzo di Giustizia di Ugo Betti: vengono alla mente anche vicende recenti. Il sistema della corruzione ha mostrato purtroppo la propria capacità di radicamento nella società civile, innervandosi profondamente in ogni settore: negli appalti, nei contratti, nelle licenze e nelle concessioni della pubblica amministrazione, in ambiziose operazioni finanziarie sino a raggiungere le università, gli ospedali, e persino le squadre di calcio e i festival canori, come amaramente sostenuto da molti.
Da una recente indagine condotta da Morris L. Ghezzi e Marco A. Quiroz Vitale è emerso che non è affatto soddisfacente l’immagine pubblica della magistratura in Italia. Tante le ragioni del giudizio negativo: soprattutto la politicizzazione, il protagonismo, la scarsa laboriosità dei giudici. Fondate alcune critiche: basti pensare alla talvolta esasperata divisione della magistratura in «correnti» e ai benefici che ne derivano per i magistrati in esse più «attivi»; divisione certo non giustificata dalla necessità di garantire la pluralità delle opinioni e di assicurare un fecondo dibattito tra le varie componenti nelle quali si articola la magistratura. Criticabile anche il protagonismo di taluni magistrati, sia quando, esorbitando dalle loro funzioni, si pongono in contrapposizione con chi sta facendo le leggi: sia quando davanti ai riflettori dei mezzi di comunicazione di massa raccontano le proprie vicende personali, esibite e ridotte a spettacolo.
Infondate altre critiche: la lunghezza dei processi non dipende soltanto dai magistrati, la crisi della giustizia non è addebitabile solo a loro. Se i lettori di questo libro entrassero in un tribunale, ne visitassero i locali e assistessero a un processo penale, noterebbero subito tante disfunzioni e inefficienze, ma si renderebbero pure conto delle scarse risorse che vengono destinate all’amministrazione della giustizia. Se poi esaminassero il testo di una legge rimarrebbero colpiti dalla sciatteria della formulazione delle varie disposizioni (neppure la consecutio temporum viene talora rispettata) e dalla oscurità del messaggio, che è diretto a tutti i cittadini. In argomento, illuminante un saggio di Michele Ainis.
Non è facile la professione di magistrato. E non è retorica quando si parla di un uomo solo, titolare di un potere «terribile» e, al tempo stesso, indispensabile; criticato talora ingiustamente, angosciato, nell’esercizio della sua funzione che investe la coscienza profonda, dalla quotidiana contemplazione delle sventure umane e in lotta con il peso dell’abitudine che lo logora sino a fargli credere che il decidere della libertà altrui sia diventato un atto di ordinaria amministrazione. Ricordate il Diario di un giudice di Dante Troisi?

Riceviamo e pubblichiamo, richiesta di rettifica:

Intendo con la presente riferirmi allo scritto, a mia firma, Quei pm politicizzati a caccia dei riflettori e non della giustizia, apparso a pag. 4 de Il Giornale di venerdì 11 marzo e allo scritto che può leggersi sul sito on line il Giornale.it, pure a mia firma, Io, magistrato, accuso “Molti miei colleghi cercano solo lo show”, con il sottotitolo Cerqua presidente alla Corte d’appello di Milano denuncia i giudici che non applicano le leggi ma attaccano chi le fa, con l’aggiunta Le lotte di potere tra correnti affossano la nostra reputazione: entrambi corredati da una mia foto. In realtà, come peraltro rilevato, si tratta della riproposizione di brani tratti dalla mia postfazione al romanzo di Pierre Boulle La faccia o il Procuratore di Bergerane, pubblicato nel 2007. Quella postfazione si giustificava allora come postfazione, appunto, ad un romanzo straniero inedito in Italia, mentre è del tutto arbitrario inserirla oggi – e senza alcuna autorizzazione – in un dibattito sul disegno di legge governativo di riforma della giustizia. Del tutto arbitrario è inoltre il contenuto del titolo, nella versione informatica. E’ particolarmente da stigmatizzare in primo luogo l’uso delle virgolette che lascia chiaramente intendere la fedele riproposizione di parole riferite e lascia pensare ad un’intervista. Non ho mai rilasciato interviste ad alcun giornalista de il Giornale e non ho mai in alcuna occasione accusato colleghi di aver cercato solo lo show. Inoltre tale frase non è in alcun modo desumibile da quanto da me scritto nella postfazione. Torno a segnalare come tali modalità di elaborazione del titolo risultino particolarmente scorrette nei miei confronti, attribuendomi – soprattutto nell’attuale delicato momento storico – una presa di posizione che non ho mai inteso assumere e che, soprattutto, nei termini sommari riportati non mi appartiene. La invito pertanto a pubblicare il seguente testo di rettifica nella stessa pagina dove è apparso l’articolo oggetto di richiesta di rettifica, con gli stessi caratteri e risalto: "Io sottoscritto Luigi Domenico Cerqua, Presidente di Sezione della Corte d’Appello di Milano, con riferimento allo scritto, a mia firma, ‘Quei pm politicizzati a caccia dei riflettori e non della giustizia’, apparso a pag. 4 de Il Giornale di venerdì 11 marzo e allo scritto che può leggersi sul sito on line il Giornale.it, pure a mia firma, Io, magistrato, accuso “Molti miei colleghi cercano solo lo show”, con il sottotitolo Cerqua presidente alla Corte d’appello di Milano denuncia i giudici che non applicano le leggi ma attaccano chi le fa, con l’aggiunta Le lotte di potere tra correnti affossano la nostra reputazione, entrambi corredati da una mia foto, non ho mai detto né scritto le frasi che costituiscono i titoli dei due articoli, le quali non si evincono neppure in alcun modo dal testo della postfazione".

Sin da ora Le comunico che ove la presente richiesta non fosse pubblicata o venisse pubblicata in altro spazio provvederò ad agire in via d’urgenza nelle competenti sedi giudiziarie al fine di ottenerne la pubblicazione o la ripubblicazione nella giusta collocazione grafica. Con riserva di ogni azione. Distinti saluti. LUIGI DOMENICO CERQUA  

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