«Io, magistrato dietro le sbarre vi racconto le vostre prigioni»

«Io, magistrato dietro le sbarre vi racconto le vostre prigioni»

«Ho fatto il magistrato di sorveglianza per tredici anni, probabilmente i miei migliori anni, se non altro anagraficamente, passando dal concorso in magistratura alle valutazioni di professionalità, zigzagando tra un’ospitata nel talk show più seguito e le botte che un tassista voleva darmi, appreso di aver a bordo uno di quelli che “liberano gli zingari“». Brillante nella scrittura e con una buona dose di arguzia nello snocciolare aneddoti, Alberto Marcheselli riesce a farci fare pace con una magistratura che forse poco conosciamo. Genovese, marito di un avvocato, ha lavorato per molti anni al tribunale di sorveglianza di Torino, avendo a che fare spesso anche con la Liguria. Adesso, deposta la toga nell’armadio ha deciso di rimettersi a fare l’avvocato, ma non prima di averci regalato un bilancio della carriera con il volume «Magistrati dietro le sbarre» (editore Melampo), un libro che si divora per lo stato di grazia in cui è stato scritto. Divertente e istruttivo di un certo mondo con il quale, volenti o nolenti, tutti abbiamo a che fare. Vediamo perché. Intanto già la scelta di fare il magistrato di per sé - dice Marcheselli - andrebbe indagata. Ancor di più se si decide di fare il magistrato di sorveglianza, lavoro simile a quello dell’arbitro di calcio, che per definizione è difficile che accontenti tutti. Il libro scorre veloce dalla laurea in Giurisprudenza all’uditorato, con i trucchi per sopravvivere «come reduci dal Vietnam al ritorno nel Vermont» imparando alla svelta che «più lavoro smaltisci e più lavoro ti arriverà». Alla fine «se hai dei buoni maestri metabolizzi che il lavoro giudiziario deve essere prima di tutto normalità equilibrio e buon senso». Alberto Marcheselli spiega come nasce la scelta di fare il magistrato di sorveglianza: nel suo caso, per caso. O, forse più propriamente per necessità, visto che, al momento in cui un uditore deve scegliere la sede di lavoro, sospeso nelle retrovie di una graduatoria crudele fatta di pericoli (le sedi dei pubblici ministeri nelle città ad alta densità mafiosa), di distanze chilometriche, e di incarichi in penombra viene da privilegiare, almeno all’inizio, questi ultimi. Entra qui in scena Mario Canepa, indimenticato presidente del tribunale di sorveglianza di Genova, con il quale il giovane Marcheselli completa l’uditorato e che descrive come «Alec Guinness, Achille Campanile e Omero riuniti in un’unica persona», che aveva l’abitudine di chiudere la giornata uscendo dall’ufficio «mimando l’uscita dal palcoscenico di Macario (che raccontava di aver visto da studente a Torino)».
Non manca un capitolo dedicato alle carceri liguri in «Cristo si è fermato a Zabriskie Point». Nello scrigno dei ricordi c’è «la prima visita in carcere, un carcere noto per la disumanità della sua vecchiezza (facile intuire che si parla di Marassi, ndr). Il suono terribile della successione di chiavistelli pesanti, la sequenza di porte a inferriate e cristalli spessi cinque centimetri, quasi sempre venati da una ragnatela di fratture. Avrei presto scoperto che quelle venature non erano il risultato di atti di violenza, ma del lento picchiare dei chiavistelli, usati tutti i giorni dalla polizia penitenziaria come batacchi per richiamare l’attenzione di un collega lontano e irraggiungibile. “Collegaaa...“ è il tipico richiamo che risuona nei corridoi deserti del carcere, spesso nelle ore assolate del pomeriggio penitenziario quando il mondo fuori diventa addirittura inconcepibile, come la civiltà nel deserto del Mojave, in Zabriskie Point».
Tanto oggi si parla del carcere genovese, tanto si contesta, ma poco si conosce. Leggendo il racconto di Marcheselli, invece, se ne scoprono lati di sconcertante umanità, come «l’odore penetrante di minestrone di cavoli», oppure l’assurdità rappresentata da «i grandi orologi elettrici, in bella vista sulle pareti dei corridoi e dei cortili, tutti fermi sull’ora sbagliata, alcuni addirittura senza lancette».
Le visite di Mario Canepa nelle case circondariali liguri, racconta l’autore che lo accompagnava, erano come quelle del papa nella parrocchia più sperduta. Canepa aveva una parola per tutti quelli che desideravano essere ascoltati. «Quel magico ometto - si legge - sapeva toccare con uno sguardo, un cenno di sopracciglia, o una parola sempre ben detta, solo e invariabilmente la corda giusta: faceva prendere appunti dal cancelliere, ordinava controlli e impartiva disposizioni, troncava, sopiva e sollevava».
È alla prima udienza da protagonista che Marcheselli entra nel vivo del mestiere e delle sue inconciliabili distorsioni. «Ero assegnatario di circa 90 procedimenti, in un’udienza nella quale venivano esaminate le posizioni di oltre 150 derelitti in tutto». «Dedicare anche solo 4 minuti a procedimento comporterebbe dieci ore di udienza ininterrotta. Nessun essere, di specie superiore o inferiore, evoluta o bruta, umano o giudiziario, può mantenere integra l’attenzione per più di 3-4 ore (anzi, ininterrottamente è difficile superare poche decine di minuti), e negare questa realtà della psicologia è una ipocrisia che ho visto praticare solo nelle aule giudiziarie. Dopo un po’ la mente si avvia inevitabilmente a fare delle volute, sempre più ampie e lontane dall’aula. Si comincia dalle cose prossime (Guarda che gambe la praticante dell’avvocato d’ufficio, come si chiama? Avrò chiuso il gas? La bolletta della luce?); si passa a riflessioni sistematiche in un crescendo di nervosismo (Certo che udienze organizzate in questo modo sono proprio una assurdità!), per poi planare decisamente nei territori dell’iperuranio (tornano in mente le versioni da Platone del liceo; avverti l’improvviso bisogno di contattare la tua fidanzata di quando avevi 19 anni, perché hai urgentissimo bisogno di chiarire una cosa; cerchi di risolvere mentalmente il teorema di Fermat; rivaluti la personale di Bondarciuk che hai visto in lingua originale la settimana prima, ecc.). Nessuno ha l’onestà intellettuale di dirlo, ma pensare di aumentare la produttività della professione giudiziaria aumentando le ore di lavoro o il carico di procedimenti è pura ipocrisia, o ignoranza».
Il libro prosegue con ritratti di tante persone vere, incontrate nel corso di una vita e con una crescente consapevolezza del ruolo fondamentale del magistrato di sorveglianza che decide come i condannati debbano scontare la pena, se possano usufruire di permessi speciali, quale sia l’evoluzione del mondo carcerario italiano. E qui sta la grande forza del libro, che rivela un autore che ha il dono delle battuta come della sintesi, ma che sa analizzare, avendolo vissuto dall’interno, un mondo doloroso e complicato che tutti noi, volentieri, dimentichiamo dopo i processi che hanno portato al carcere i colpevoli già mediaticamente messi alla gogna. Marcheselli, racconta di essere diventato dopo alcuni anni di carriera come un chirurgo nell’analizzare i fascicoli personali dei detenuti. «Avevo già abbastanza esperienza per sapere che non si è mai indifferenti al male e che se non lo senti vuol dire che ti sta divorando nel profondo. E avevo ancora abbastanza memoria per ricordare che non era quello ciò che volevo. Mi è venuta voglia di scappare».
Nella variegata galleria di personaggi incontrati dall’autore durante la sua attività di magistrato di sorveglianza non mancano tipi da cinema. E intuizioni che fanno la differenza. Come nella vicenda di S., un «ex ragazzo ormai» che aveva commesso un brutto omicidio. «In lui brillava qualcosa di diverso, che non sapevo individuare... Studiai a lungo il suo caso e ci fu un particolare che mi colpì, confermandomi l’impressione originaria: era quasi diplomato in pianoforte al conservatorio. Avevo ragione, non era nato guappo. Assumendo un grandissimo rischio, con la direttrice, decidemmo di ammetterlo al lavoro all’esterno e ai permessi premio, anche se gli mancavano venti anni di pena. Fino a che ho potuto seguirlo, fu inappuntabile». C’è anche una parte dedicata a uno spacciatore molto attivo in passato proprio in Liguria. «ML, a quanto si sapeva dagli atti, faceva ogni tanto il giostraio e, professionalmente, lo spacciatore di droga. “Senta, mi dica chiaramente cosa pensa di me”. Lo squadrai e, preso da una improvvisa ispirazione, gli dissi: “Io glielo dico, ma lei non si deve offendere, perché sarà un discorso da uomo a uomo”. Mi disse che voleva sapere. “Lei, ML, è quello che in gergo tecnico si definisce un gran fetente. Lei è un delinquente dentro. Lavorare non le piace. Però non è né un fesso, né un quaquaraquà”. Tacque e se ne andò. Il mese successivo mi disse: “La devo ringraziare per avermi detto che sono un fetente” - questo esordio mi fece molto sorridere - “Perché lei mi ha detto la verità e questo significa rispetto. Quello che ha detto è verissimo. E ora, visto che lei è stato sincero con me, lo sarò io con lei. Le dico che, se lei mi concede qualcosa, io non combinerò nulla, anche se mi capita una buona occasione.

Ma, poiché sono onesto, come ha detto lei, le aggiungo che dopo, quando sarò libero, se mi capita da fare qualche bel movimento, non mi tirerò indietro“. In quel momento si compì una rivoluzione copernicana nella mia concezione del lavoro di mds: gli dissi: “ML, lei da ora andrà in permesso premio“».

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