«Io, re di Pasqua, chiedo udienza al Papa»

Il suo potere sta nelle penne di cui è vestito ed è iscritto nella corteccia che gli fa da tabarro, riportando le genealogie dei suoi avi. Per il resto il re è nudo. Per davvero. E la «mise» gli dona. Nemmeno Hans Christian Andersen e la sua collezione di racconti sugli abiti nuovi dell'Imperatore riuscirebbero a vestirlo meglio di come Madre Natura l'ha provvisto: infatti lui, Agterama Puhi Uira, con le fiabe non c'entra, dato che è re in carne ed ossa, sovrano di Rapa Nui, meglio nota all'orbe moderno (ed ex colonialista) come Isola di Pasqua. Lui non ha il profilo grezzo dei moai giganti simbolo per eccellenza della cultura e del marketing locale: pelle ambrata, chiome selvagge sale e pepe e sguardo di smeraldo, nelle vene di Agterama scorre sangue maori e un pizzico di pazzia, quanto basta a un uomo di mezza età, che all'anagrafe risponde al nome di Huki Atan, per svegliarsi un giorno del 2005 e autoproclamarsi monarca dell'isola in virtù della sua discendenza con Pakarathi Ure Potahi, a sua volta legato - consultare il tabarro di corteccia per capire - al leggendario sovrano Hotu Matua. Una garanzia di «auctoritas» che ha risvegliato in questo indigeno la voglia di riprendersi un po' di quello che la Storia e la logica del più forte hanno rosicchiato all'Isola: il credo di Agterama e di chi la pensa come lui è semplice: Rapa Nui starebbe meglio da sola, indipendente dal Cile, e soprattutto l'isola, lontana per lontana da qualunque altro scoglio di mondo, ha molto più a che spartire semmai con la cultura polinesiano-maori che con il Sudamerica.
È così che comincia l'avventura di Agterama che, quando fa il Re si veste di piume e di vento e comincia a far valere i suoi diritti. L'abbiamo visto trasformarsi sotto un caldo, caldissimo cielo australe: davanti al seguito variegato dei suoi «sudditi» sempre felici di ascoltare una sua prolusione, mai più breve di 40 minuti, come quella che abbiamo inteso, pur non compreso appieno, Agterama ha celebrato un gemellaggio con le Isole Marchesi, nel cuore della Polinesia più recondita e meno turistica. Perché è là, dove le coordinate del mondo si invertono per ricominciare, che Agterama si sente davvero a casa: lui volta le nobili terga al robusto continente andino, e guarda a Occidente, al suo effimero «far west» di isolette che una mareggiata potrebbe sommergere, ma nessun invasore ha mai scalfito completamente. E della patata dolce - prova principe con cui l'archeologo norvegese Thor Heyerdahl, negli Anni Cinquanta, voleva dimostrare il legame fra Rapa Nui e Cile, negando che fossero i Polinesiani i primi colonizzatori - Agterama conosce solo l'uso in cucina.
A guardarlo danzare, a ritmo di tamburi, con l'energia di un bacco, pensi solo per un attimo alle comparse del film ecologista che Kevin Costner dedicò all'Isola di Pasqua. Ma qui, a parte il suo titolo e la sua auto-proclamazione, per così dire sbarazzina, non c'è fiction. Agterama le sue battaglie le combatte davvero: un Vercingetorige moderno cui la Storia ha (per ora e di nuovo) affidato il ruolo di perdente, o per dirla con un'immagine più vicina alla sua cultura e più cara a chi pensa ancora in termini precolombiani e ante conquista, un azteco Quetzalcoatl. Piumati lo sono entrambi. Divino Agterama lo è un po' meno dato che in verità è alquanto pragmatico: «Ci possiamo parlare in lingua Rapa Nui o in tahitiano, ma non credo mi capirebbe - dice in buon inglese - oppure in francese. Eviterei lo spagnolo, perché è la lingua che ci rende schiavi», chiude secco il re mentre afferra il taccuino su cui annota la sua mail. «La cosa migliore è scriversi; lei è italiana: mi può aiutare ad avere un contatto in Vaticano per parlare del mio popolo». Da allora la corrispondenza è fitta, così le intemperanze. In politica interna Agterama non si è mosso esattamente con i piedi di piombo: dopo aver creato un dipartimento di registro si è messo a stampare passaporti. Una risoluzione un po' troppo forte anche per quelli - e sono in molti - che come lui vorrebbero maggior autonomia dal Cile, un'equa ridistribuzione delle terre e un maggior controllo del turismo. Il governo cileno e la stampa locale non l'han presa bene: «Sujeto pintoresco» è fra i commenti più lusinghieri indirizzati ad Agterama che però non si dà per vinto e batte il chiodo anche sul fronte della politica estera. Agterama oggi pensa di rivolgersi al Vaticano e a quelli che lui, senza troppi giri di parole ma nemmeno irriguardosi doppi sensi, definisce «quegli antichi pezzi d'arte e di valore del Vaticano», il «re» è alla ricerca di interlocutori finalmente preparati a capire i suoi problemi: il primo riguarda le messe. «Vorrei che fossero celebrate non solo in spagnolo, ma anche in lingua Rapa Nui e se possibile anche in tahitiano e francese come avviene a Tahiti». Ma il vero cruccio del re sono i turisti - paparazzi.

È lui a chiamarli così: «Ho smesso di andare in chiesa quando ce ne sono troppi e il parroco non fa nulla per impedire loro di scattare anche durante l'offertorio. È una profanazione». Il prezzo da pagare per essere un vero Re.

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