Io, trevigiano, non ho mai visto queste «Cose dell’altro mondo»

nostro inviato a Venezia

Torno di frequente a Treviso, la mia città, e devo dire che non l’ho ritrovata nel quadretto caricaturale che ci ha proposto ieri Francesco Patierno nel suo Cose dell’altro mondo, paradossalmente uno dei film più attesi di questa edizione della Mostra. Paradossalmente perché, se si eccettua l’idea geniale dell’improvvisa sparizione degli extracomunitari che getta nello sconcerto i veneti paralizzando le attività economiche e sociali della zona - idea che peraltro appartiene a Un dias sin mexicanos (2004) di Sergio Arau al quale segretamente s’ispira - il film in questione è poca cosa. Eppure, grazie alle polemiche suscitate dal divieto di girare in città imposto dal sindaco leghista e dalla conseguente levata di scudi dei militanti padani, Cose dell’altro mondo è il caso del momento. Purtroppo però, un ritratto tanto forzato della cittadina veneta, riprodotta a Bassano del Grappa, non le rende giustizia. Tanto più se si considera che uno studio della Caritas, che di immigrati s’intende assai, l’ha designata come la migliore d’Italia in fatto d’integrazione. E dunque.
Nel film di Patierno si racconta di un imprenditore anche padrone di una tv locale realmente esistito nel trevigiano, una sorta di Berlusconi in sedicesimo interpretato da un istrionico Diego Abatantuono. Contrariato dal ramadam osservato dai suoi dipendenti, il tracotante «paron» si sfoga via etere con invettive che invitano gli immigrati a tornare a casa. Preso in parola, albanesi e senegalesi scompaiono nel nulla. Dopo pochi minuti però la sceneggiatura si perde per strada come l’interpretazione di Valerio Mastandrea, poliziotto indeciso soprattutto a sposare l’eterna fidanzata, la maestra Valentina Lodovini, che intanto se la fa con un ragazzo africano dal quale, per giunta, ora aspetta un figlio. In mezzo, sparsi qua e là, brevi dialoghi tra filosofi da bar e tassisti xenofobi (particolarmente efficace quello interpretato da Vitaliano Trevisan) che tratteggiano una città innervata di razzismo. Solo mitigato dalla presenza di un prete che ha trasformato la sua canonica in dormitorio per gli immigrati, malamente appiccicato. Nel finale ancor più surreale spunta dal nulla persino un fantomatico mago, sorta di coscienza della buona convivenza civile. Il quale, durante il trevigianissimo rito del «panevin» (quando nei campi si brucia il fantoccio della Vecchia per propiziare un’annata felice), si lancia in un sermone riparatorio, auspicante la riconciliazione tra le razze.
Purtroppo, a parte qualche riuscita battuta nel colorito dialetto locale, la Treviso che esce dallo schermo è ben lontana dalla città reale, tutt’altro che ripiegata e provinciale. La vera Treviso è una città globale, aperta al mondo. Quella della Benetton, per esempio, e dei suoi United Colors con le note campagne inter-razziali. Una città di grande tradizione sportiva, con squadre di rugby e basket che primeggiano nei campionati nazionali, frequentano stadi e palazzetti europei e hanno portato nelle piazze locali la cultura della competizione e della collaborazione con gli stranieri. Infine, una città a misura d’uomo, sulla quale ricevo elogi non formali quando mi capita di svelare altrove le mie origini.
Al punto che, in quei momenti, rifletto sui perché della mia emigrazione. Al Lido, il film di Patierno è stato a lungo applaudito e ha strappato sonore risate soprattutto durante alcune vivaci espressioni dialettali.

Anche nei cinema dov’è già uscito sfruttando il trampolino delle polemiche potrebbe trovare un buon riscontro di pubblico. Ma non basta cavalcare a spanne il tema dell’integrazione razziale per replicare il successo di Benvenuti al Sud.

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