Gustavo Selva*
Nessuno sostiene che in Irak le cose siano andate come lamministrazione americana, il giorno in cui ha deciso di dichiarare guerra a Saddam Hussein, pensava potessero andare. I morti sono stati molti di più di quanto le «bombe intelligenti» avessero causato nei giorni del conflitto, i caduti americani hanno superato i duemila (e non si credeva possibile) e la guerriglia scatenata dai sunniti che con Hussein avevano goduto di un trentennio di predominio, ostacola un ritorno alla calma. Linstabilità cronica della zona e le implicazioni religiose, etniche, tribali ed economiche di un Paese i cui confini furono tracciati «sulla carta» nel momento dellassestamento dellimpero britannico nei primi decenni del secolo scorso, fanno il resto.
Preso atto che le difficoltà di gestire una vittoria sono spesso superiori a quelle superate per ottenerla, cè da dire che di vittoria e non di sconfitta si deve parlare e che i risultati veri e profondi ottenuti malgrado bombe ed attentati stabiliscono un indubbio successo politico.
Tanto è vero che perfino la sinistra italiana comincia a valutarlo così.
Stati Uniti e Regno Unito hanno invaso lIrak, lo hanno conquistato con i carri armati, hanno arrestato Saddam Hussein e ne hanno demolito le statue, hanno «esportato» una democrazia che gli iracheni, sorprendendo tutto il mondo, hanno accettato e seguito con entusiasmo affollando i primi seggi elettorali in cui si votava con libertà. Ricordando che le ultime elezioni avevano dato a Saddam Hussein il cento per cento dei voti, superando così anche i 99,8 per cento di Stalin e i 99,9 per cento di Ceausescu, sè constatato che i popoli, lasciati liberi, sanno pensare con la loro testa.
Tutto questo è accaduto rigorosamente nel quadro di una deliberazione delle Nazioni Unite, che stabiliva modi e tempi di intervento e dettava la road map verso la democrazia rappresentativa. Il fatto che recentemente labbia prorogata vuol dire che la ritiene ancora valida. LItalia ha partecipato da protagonista alla fase pacificatrice della vicenda. Ha pagato con i morti di Nassirya, ha pagato con morti e rapimenti di ostaggi, ha sofferto come soffrono tutti coloro che si battono in condizioni di guerra per soccorrere le popolazioni. Non sè ritirata, non ha seguito lesempio dello spagnolo Zapatero, non ha condiviso latteggiamento sdegnoso e antiamericano della Francia e quello preoccupato per i propri interessi di Schroeder e la maggioranza parlamentare di centrodestra ha saputo superare con compattezza lopposizione testarda e animosa della sinistra sia sulle decisioni sulla partenza dei nostri soldati per lIrak sia sui provvedimenti di rifinanziamento della missione. Lopposizione, pur se divisa al proprio interno, nel momento delle votazioni sè sempre schierata sulla tesi più oltranzista, quella della richiesta di ritiro immediato, «senza se e senza ma».
Il tempo non ha giocato per la sinistra: fuori da polemiche artefatte e ininfluenti sui modi di intervento di Bush (ormai ci sono stati e non si torna indietro) e di falsi scoop da gazzetta locale, al Quirinale, a Palazzo Chigi e in Vaticano è stato ospite Jalal Talabani, il Presidente della Repubblica Irachena, il primo eletto da un popolo libero. Ascoltare Papa Ratzinger che definisce il colloquio con Talabani «proficuo e positivo» vorrà pur dire qualcosa...
È stato dunque Talabani, «autorizzato» anche agli occhi dei politically correct a dire: «Un ritiro anzitempo delle vostre truppe sarebbe una catastrofe per il popolo dellIrak e una vittoria del terrorismo». «È ora - ha continuato il presidente iracheno - di lasciar perdere la diatriba se scatenare la guerra sia stato giusto o no. Ormai questa è storia. Dobbiamo comprendere una semplice realtà: noi stiamo da una parte, i terroristi dallaltra. Scegliere da quale delle due stare non è difficile». E il governo di centrodestra ha scelto, mentre Prodi e Fassino stanno ancora troppo seduti su due sedie.
Sono le parole di Talabani sulla funzione pacificatrice dei nostri soldati in Irak a mettere la sinistra italiana davanti al suo errore di valutazione «democratica» di una vicenda internazionale scaturita dalla dichiarazione di guerra mondiale dichiarata e fatta dal terrorismo islamico al mondo occidentale e dalla risposta che ad essa deve essere data.
*presidente commissione Esteri della Camera
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