Non è cattiva è che la disegnano così. Bar ha ventiquattro anni, la quinta di reggiseno, un nome che fa compagnia e uno sguardo che impietrisce non vi diciamo cosa. Per questa figlia di Hod Hasharon, quattro villaggi diventati un paese a otto chilometri da Tel Aviv, dove le femmine sono più dei maschi, Israele nutre un affascinato disprezzo, lo stesso fastidio fisico che aveva per lo sceicco Yassin, che era cieco, barbuto e paralitico. Lei che come minimo, per il panorama che offre, dovrebbe essere proclamata patrimonio mondiale dell'umanità come i vulcani della Kamchatka, la foresta tropicale di Sumatra, il Parco nazionale di Yellowstone. Bar Rafaeli è un peccato originale senza perdono, un crimine contro la pace dei sensi. Un nemico. Come Nasrallah, Haniyeh, Ahmadinejad. Prendersela con lei è diventato un tormentone senza fine, una litania furente, una compilation ad alta densità di insulti.
Un po’ se l’è cercata pure lei, decorativa e indifferente come una copertina di carta patinata: «Perché dovrebbe essere bello morire per Israele - le avevano fatto dire - quando è molto meglio vivere a New York?». Sotto un titolo sobrio: «Bar Rafaeli contro lo Stato di Israele». Mai detto una porcheria del genere si era difesa querelando per diffamazione il quotidiano Yedioth Ahronoth e chiedendo 500mila sheke, circa 100mila euro, di risarcimento. Quasi piangeva: «Sono stata abbandonata al linciaggio pubblico e mediatico senza nessun perché». Il perché in realtà c’è. Perché i suoi errori li ha commessi con passione, perché restare se stessa è l’unica vanità che nessuno gli perdona. Non ha fatto il servizio militare per esempio che in Israele è obbligatorio anche per le donne. Il generale Avi Zamir, comandante del Dipartimento risorse umane delle Forze armate di Israele, con il tono di chi ha vissuto poco e male, era stato durissimo con lei, quasi avesse di fronte una giovane recluta sotto corte marziale: per aggirare i due anni di naia, la sua arringa, ha usato il volgare trucchetto di un matrimonio di comodo, faremmo tutti bene per punirla a boicottare i suoi prodotti commerciali «e dal punto di visto etico dovrà pur guardarsi allo specchio». Guardiamo anche noi. Dal punto di vista etico, chiaro.
Poi ha fatto infuriare la comunità ultra-ortodossa che alla prima occasione l’ha spianata sulle moschee. Pietra dello scandalo: la campagna pubblicitaria di Fox, marca d'abbigliamento di moda in Israele, disegnata sulle misure di Bar. Troppo osé l’hanno bollato i religiosi. «Certe immagini - ha tuonato il rabbino Mordechai Bloi, guida spirituale dei Guardiani della Santità - avvelenano l'ambiente». Boicottiamolo, l’ordine degli osservanti, lo stesso dei militari. Anche noi, nel caso specifico, siamo sempre stati osservanti. E si sa, è quando tutti ti odiano che ci si diverte.
Ci si sono messi i fotografi, rabbiosi per non essere riusciti, malgrado eccezionali sforzi logistici, a beccare nemmeno una foto di Bar e Leonardo Di Caprio durante una breve ritorno in famiglia della ragazza. Per visitare il Museo dell'Olocausto e il Muro del Pianto sono stati costretti alle ore piccole per poi menarsi tra di loro per un flash mai scattato: «D'ora in poi non seguiremo più le attività di Refaeli, la ignoreremo». Boicottaggio, manco a dirlo, pure qui. Per ultimo è arrivato il fisco, perché quello non manca mai, specie se ci sono in ballo i denari. L’agenzia delle Entrate con vuota burocrazia dello spirito le ha chiesto di pagare un marea di imposte arretrate. A lei che vive e lavora negli Stati Uniti, ha l’azienda registrata a Singapore e la residenza fiscale in Israele, dove nemmeno risiede, in via di annullamento.
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