«Il rigassificatore di Brindisi? Un crimine». Parola del governatore pugliese Nichi Vendola. «Il no al rigassificatore non è una scelta nimby (acronimo british per «non nel mio giardino») ma di sviluppo», gli fa eco il sindaco del comune triestino di Muggia, Nerio Nesladek. Il terminal di rigassificazione off-shore di Porto Recanati, invece, difficilmente riuscirà a vedere la luce perché il presidente della Regione Spacca e i Comuni di Ancona e Macerata hanno detto «niet».
E così, con le temperature sottozero e i consumi di gas che si impennano l’Italia si ritrova con due soli rigassificatori in funzione - quello spezzino di Panigaglia da 4 miliardi di metri cubi e quello di Rovigo da 8 miliardi di metri cubi - e con la necessità di riavviare le inquinantissime centrali a olio combustibile. Perché su circa 12 progetti di infrastrutture di rigassificazione, solo due sono state realizzate. Mentre le altre sono bloccate. Se il nostro Paese soffre la carenza di approvvigionamento, si possono ringraziare i vari Vendola, Spacca e Nesladek. Infatti, l’88% del gas utilizzato in Italia arriva attraverso il tubo dei gasdotti e non via nave. Il che si traduce con una dipendenza per oltre i due terzi del fabbisogno nazionale da Alegeria (37%) e Russia (30%). E se l’Eni non avesse riavviato la produzione libica (12,5%), come ha detto l’ad Paolo Scaroni, la situazione sarebbe ancor più drammatica.
«Il maggiore responsabile - commenta Stefano Saglia, deputato Pdl e già viceministro dello Sviluppo - è il governo Amato del 2001 che ha approvato una riforma della Costituzione nella quale un settore strategico come l’energia è materia concorrente fra Stato e Regioni, una mostruosità».
Gli stessi toni utilizzati dal presidente dell’Authority per l’Energia, Guido Bortoni, nella sua ultima relazione annuale. «Senza infrastrutture l’Italia sarà condannata a diventare una “provincia“ del gas e non un Paese-snodo che assume un ruolo cruciale», aveva detto. Una sollecitazione che rischia di restare lettera morta se ci si pone una semplice domanda: come potrà giungere in Italia il nuovo gasdotto South Stream il cui sbocco è previsto a Otranto, se la Puglia da dieci anni blocca con vari pretesti un rigassificatore? «Anche la sinistra si riempie la bocca con parole come “liberalizzazioni“, ma queste si ottengono se si ha un’abbondanza di infrastrutture; se queste ultime coincidono con la domanda non c’è concorrenza», aggiunge Saglia. Senza contare che comitati «no-tutto» ed enti locali spesso si oppongono anche alla realizzazione dei campi di stoccaggio con il risultato che la capacità italiana di accumulo è di 14,7 miliardi di metri cubi con il rischio di intaccare le riserve strategiche in casi di emergenza come accaduto nella crisi ucraina del 2006.
Il problema non si esaurisce solo con l’annosa carenza infrastrutturale. Si tratta di definire una vera e propria politica energetica. A partire dall’utilizzo del gas stesso: nel 2010 il 25,4% è stato destinato agli usi industriali e il 41,7% (35,8 miliardi di metri cubi) alla produzione di energia elettrica. Si comprende bene che la rinuncia al nucleare implichi un sempre maggiore sfruttamento di questa fonte energetica. Ecco perché la diversificazione è importante.
L’Italia potrebbe essere in grado di produrre biometano (ottenuto da residui zootecnici e sottoprodotti agricoli) per soddisfare fino al 20%, ha rilevato il Consorzio Italiano Biogas.
Non meno necessaria una razionalizzazione della distribuzione con nuovi investimenti, oggi resi più difficili da un mercato finora frammentato in centinaia di piccoli operatori comunali, come sottolinea Intesa Sanpaolo in un convegno in programma oggi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.