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Italia-Francia, ovvero la rivincita degli emigranti

Com’è lontana Tolone. Ai più giovani questo riferimento storico dirà ben poco, eppure per un quarto di secolo l’Italia del rugby si è portata appresso la maledizione di Tolone, l’umiliazione di una partita che fu ben più di una disfatta: nella capitale della marina francese, il 26 marzo del ’67, la Francia di Pierre Villepreux (inteso come estremo, non come allenatore) travolse per 60-13 la povera italia di Marco Bollesan (anche qui inteso come terza linea), di capitan Di Zitti e di un gruppo di volenterosi dilettanti. Sessanta punti dei tempi in cui la meta ne valeva appena tre, sessanta punti che ci costarono lo schiaffo peggiore della nostra storia: la decisione dei francesi di non affrontarci più in coppa Europa con la nazionale vera, ma con la cosiddetta nazionale A, praticamente con le riserve.
Un affronto che durò fino a quando (Treviso 1993) la loro nazionale dei rincalzi si beccò la prima sconfitta con les italiens. Allora tornarono sui loro passi, si ripresentarono con la nazionale vera, ma nella dolce Grenoble (1997) beccarono di nuovo. E trovarono mille scuse, crollate adesso al Flaminio, nella giornata che ha cancellato finalmente 75 anni di complesso d’inferiorità azzurro. Adesso anche loro hanno dovuto riconoscere che questa è una vera sconfitta. E allora la gioia più grande per l’Italietta del rugby è proprio quella di vedere i francesi rosicare, quei francesi che si chiedevano fino a sabato che cosa ci facesse l’Italia nel Sei Nazioni. «Adesso ci si può fare la stessa domanda sui francesi - ammetteva onestamente ieri L’Equipe -: impossibile cadere più in basso».
Già l’Italia come una Corea. Oggi la Francia ha scoperto questo parallelo. Non solo, ma Marc Lievremont, il ct che ha assistito impassibile alla disfatta, salvo poi scagliarsi contro i suoi giocatori nel dopo partita («Sono dei codardi. Il loro allenamento di martedì è stato disgustoso, orribile»), è stato subito accostato a Raymond Domenech, il ct del calcio che ha firmato la disfatta dei Bleus al mondiale sudafricano.
Insomma per Bergamasco («Non vedo l’ora di tornare a Parigi per raggiungere il mio club»), per Parisse e per tutti gli italiani di Francia (ce n’erano otto in squadra, distribuiti tra Parigi, Clermont Ferrand e Brive) il sapore di questa vittoria è ancora più gustoso. Davanti a una nazione rugbistica che ci ha insegnato tanto (da Julien Saby a Villepreux, da Fourcade a Gerges Coste che ci ha fatto diventare grandi), ma che tante volte dimentica che qualcosa ha avuto anche da noi (i fratelli Spanghero, una delle più grandi dinastie del rugby francese, erano tutti figli di un emigrante).

Chissà che d’ora in poi ci considerino un po’ meno parvenu.

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