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Il jihadismo in Europa? Non autoctoni, ma dei corpi estranei

La tesi secondo cui il jihadismo è "locale" non tiene conto delle reti straniere

Il jihadismo in Europa? Non autoctoni, ma dei corpi estranei

Negli ultimi mesi alcune fonti vicine ad ambienti di Governo hanno rilanciato la teoria secondo la quale la minaccia jihadista in Europa non viene da fuori ma dall’interno, dal cosiddetto "jihadismo autoctono"; ma è veramente così? Non proprio.

Per prima cosa è necessaria una premessa: dire che la minaccia è autoctona significa prendere in considerazione soltanto una parte del problema, mettendo in secondo piano due aspetti fondamentali, in primis quello delle reti jihadiste estere presenti in Europa da decenni, come ad esempio quella marocchina in Spagna, quella algerina in Francia e quella tunisina ed egiziana in Italia (presenti in loco fin dagli anni ’90).

In Italia il filone tunisino ha svolto un ruolo fondamentale fin dai tempi di Sami Essid Ben Khemais e continua ad esserlo oggi con personaggi legati ad Ansar al-Sharia.

In Gran Bretagna è poi essenziale tener presente che i padri del jihadismo locale erano personaggi come Omar Bakri Muhammad e Abu Qatada, certamente non “autoctoni”.

Il secondo aspetto impropriamente dimenticato è quello legato ai flussi migratori. Nonostante c’è chi continui a voler propinare l’idea che i jihadisti non vengono da fuori, i fatti mostrano ben altro. Sono molti infatti i jihadisti entrati in Europa sia dalla rotta siciliana che da quella balcanica e centro-europea (come dimostrano alcuni dati dell’anti-terrorismo ungherese). Dunque tunisini, ceceni, marocchini, afghani ed anche siriani, entrati in Europa con i flussi e pronti a colpire.

Un'altra esternazione da prendere con le molle è quella secondo cui “La minaccia jihadista non viene dall’estero ma da soggetti nati e cresciuti in Italia/Europa”.

Il fatto che in molti casi i soggetti radicalizzati siano nati e/o cresciuti in Europa non li rende in automatico “autoctoni”. Si tratta infatti di personaggi che non si sono mai integrati al punto da non poter essere ritenuti europei nel vero senso del termine, neppure se parte di quelle “terze generazioni”. Non a caso molti di loro vengono da quartieri-ghetto, da “società parallele” come Molenbeek, come i quartieri/sharia britannici e quelli a maggioranza maghrebina in Francia o a Malmoe. Un “corpo estraneo” presente in Europa e se anche nato e cresciuto qui, decisamente non “autoctono”. Con tale termine si può invece far riferimento ai convertiti, che restano comunque una minoranza rispetto agli altri casi.

Un altro punto che cerca un distacco tra attentatori in Europa e Isis per supportare la teoria “autoctona” fa leva sul discorso secondo il quale “chi ha fatto attentati in Europa non è legato a cellule strutturate dell’Isis”.

Una considerazione che dimentica un aspetto essenziale: l’Isis può essere interpretato come un “franchising del terrorismo”, utilizzando il termine del prof. Marco Lombardi, non ha una struttura gerarchica stabile e definita come al-Qaeda; non ha uno “stato maggiore” prettamente arabo e arruola chiunque.

L’Isis è ibrido, esattamente come il tipo di strategia che mette in atto, ibrida e a bassa intensità. Può includere lupi solitari, zombie, piccole cellule, reti precedentemente legate ad al-Qaeda e successivamente passate all’Isis.

Limitare il discorso alle “cellule” senza prendere atto della complessità e dell’innovazione del fenomeno Isis significa non averne adeguatamente compreso le nuove dinamiche operative, il nuovo jihadismo che è in grado di fondere vecchio e nuovo a seconda del contesto.

Per quanto riguarda i rischi futuri per l’Europa, il fatto che gli attentati possano essere organizzati da soggetti già presenti in loco e fomentati dalla propaganda dell’Isis è solo una piccola parte del problema. Varrebbe invece la pena focalizzarsi su centinaia di jihadisti, molti dei quali arabi e arabofoni, che non possono rientrare nei propri paesi d’origine e che potrebbero cercare rivalsa in Occidente (sfruttando magari le rotte migratorie) o in Russia.

Non dimentichiamo che le cosiddette “Primavere Arabe” che tanto stavano a cuore agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, hanno permesso a centinaia di jihadisti di fuggire dai propri paesi (molti di questi si trovavano in carcere) per andare a rafforzare le file dell’Isis in Siria e Iraq ma anche quelle qaediste. Gli stessi jihadisti che oggi cercano di contrastare russi ed esercito siriano.

Uno scenario che sotto alcuni aspetti ricorda la guerra tra afghani e sovietici degli anni 80. All’epoca i “ribelli moderati” erano i mujahideen di un certo Usama Bin Laden.

Cosa successe con la fine della guerra? Dove confluirono i jihadisti? A volte la storia si ripete.

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