Alice for children

Kenya, solo pochi euro per un futuro ai bimbi

Viaggio tra i volontari di "Alice for Children". La bellezza di compiere un miracolo quotidiano / Luna Berlusconi. La sottoscrizione: ecco come fare per aiutare i bimbi. La volontaria: "Insegnamo ai kenioti come camminare sulle proprie gambe"

Kenya, solo pochi euro 
per un futuro ai bimbi

Nairobi (Kenya) - Un inferno popolato di bambini. Nairobi è una metropoli di quattro milioni di abitanti, più della metà ammassati nelle baracche. Ma il quadro non è ancora completo: il 50 per cento del popolo keniota ha meno di 18 anni. Incontrare un anziano per la strada è praticamente impossibile. Eppure si può transitare per la Capitale senza inciampare nell'inconveniente degli slum, le baraccopoli che diventano quartiere sono una zona a traffico limitato, del turista e della coscienza. Sorgono dove meno te lo aspetti, a dieci minuti dalle ambasciate in stile vittoriano o - come Korogocho, la più malfamata -, a ridosso di Dandara, una delle discariche più grandi di tutta l'Africa. Una montagna di rifiuti su cui brucano centinaia di persone in cerca dello scarto dello scarto, un qualcosa che sia ancora utilizzabile per rattoppare una parete, costruire un tavolo o inventarsi un giocattolo.

Lo slum è un frullatore sensoriale. La prima impressione è olfattiva: l'odore della spazzatura e delle flying toilets. Se cerchi un bagno ti danno un sacchetto. «Lo chiudi e lo lanci», racconta in perfetto inglese Edmun Oponto, interfaccia africana di Alice for Children, associazione per le adozioni a distanza. Ma spesso scarseggiano anche i sacchetti. In mezzo a questo delirio i bambini continuano a inseguirti, ad aggrapparsi ai finestrini delle macchine, a saltare e a urlare in coro: «How are you? Come stai?». E suona come un paradosso ingenuo e feroce, chiedere a noi come stiamo.

Tra le case diroccate e gli scoli delle latrine sorge un mondo esattamente come il nostro. Ricavato in un budello di lamiera che sembra una scatola di tonno gigantesca c'è un parrucchiere con un'insegna che promette «trattamenti di bellezza a basso costo». I bisogni, le necessità e le ambizioni sono uguali ai nostri. Ed è questo che fa male. Una donna, seduta per terra ad allattare un bambino minuscolo vende un casco di banane a 100 scellini, circa un euro. Poco per noi, molto per loro. Lo stipendio medio si aggira sui 60 dollari al mese. E poi i «negozi» di vestiti, perché nel fango e tra i liquami la dignità ha un suo valore. «La mattina - ci racconta un insegnante keniota - molti di loro escono dalle baracche vestiti di tutto punto e vanno in città a lavorare o a cercare un impiego». Appena finisce la strada sterrata c'è il rito della pulizia delle scarpe, come se portando via una crosta di fango si spazzasse via il peccato originale di vivere in un ghetto. Ognuno ha diritto a mangiarsi un pezzo di sogno e a immaginarsi una via d'uscita. E il sogno è fatto anche di icone, simboli che facciano sembrare il traguardo più vicino.

L'ultimo respiratore attaccato all'immaginario di questo popolo è Barack Hussein Obama, sua nonna abita ancora a qualche centinaio di chilometri da Nairobi. La sua faccia spicca sui banchetti e nelle librerie come una speranza di fuga. «La sua elezione è stata una vittoria anche per noi, ma al momento non è cambiato nulla. Nessuno si interessa di noi» ci racconta un venditore. Rimane la speranza di un cambiamento politico. «Il 4 agosto si vota per un referendum costituzionale e dovrebbe iniziare una stagione di riforme istituzionali - spiega al Giornale Pierandrea Magistrati, ambasciatore italiano in Kenya -. Potrebbe essere la strada giusta».

Rimane il dramma delle malattie. Tutte quelle che possono attecchire in un groviglio di corpi senza nessuna misura igienica, neppure la più elementare. «La speranza di vita si è accorciata: è ferma ai 47 anni. Il virus dell'Hiv ha avuto una crescita incredibile negli anni 90», racconta Gianfranco Morino, medico piemontese che da 25 anni lavora in Kenya.

L'Hiv è un mostro che si sta divorando l'intero Continente, una ferita per cui non esistono ancora punti di sutura. Entrando in una scuola degli slum si ribalta la famosa pubblicità che negli anni ottanta avvisava gli italiani del pericolo dell'Aids. Qui l'alone viola ce lo abbiamo noi, timorosi di toccare qualcosa o qualcuno. Noi che siamo sani. «È come se fosse scomparsa una generazione, quella di chi ora dovrebbe avere quarant'anni - ci racconta un volontario - , l'Aids ha spazzato via i genitori di moltissimi bambini». Orfani che vivono nella violenza delle periferie. «In Africa è praticamente impossibile rimanere soli, questo è un continente fatto di cugini. Ogni bambino ha dunque un guardiano, un tutore legale - racconta Diego Masi, fondatore di Alice for Children -. Ma i bambini preferiscono stare nelle nostre scuole e nei nostri villaggi perché il tasso di violenza domestica negli slum è altissimo».

La polizia non entra nei ghetti e il servizio sanitario nazionale, di buon livello per un Paese del terzo mondo, è a pagamento. Chi sta male si cura da solo o non si cura e basta. Alcolismo, pedofilia e violenza sessuale sono drammi che gli abitanti delle baraccopoli conoscono sin da piccoli. «Molti uomini si ubriacano di chang'a, un liquore che viene confezionato in casa. Per renderlo più forte, aggiungono anche acidi, benzine e anche gli alcali delle batterie delle auto». Nel 2005 48 persone sono morte nella zona di Machakos per aver bevuto una partita di liquore tossico, altre 84 sono state ricoverate. Storie di incesti, violenza domestica, padri ubriachi e madri picchiate. «La maggior parte delle persone che vengono in ospedale - racconta il professor Morino - ha subito violenze, molto spesso all'interno del nucleo familiare».

E il dramma prosegue anche nella carceri. «Nelle prigioni femminili sta aumentando il numero dei parti - ci spiega una fonte keniota -. Di notte le celle si trasformano in un inferno e le detenute vengono violentate. Ogni mese nascono molti bambini che al compimento del terzo anno di età non possono più stare in carcere con le madri e si trovano soli negli slum». Un incubo da cui l'Africa non riesce a svegliarsi. Mentre ti lasci alle spalle i ghetti, i bambini continuano a inseguire l'auto urlando: «Come stai?».

Ora la risposta c'è: male, grazie.

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