Il killer della Virginia vive anche fra noi

Il killer della Virginia vive anche fra noi

Il giovane coreano Cho Seun Hui ha voluto lasciare al mondo, con le immagini e con le parole, il documento della sua discesa all’inferno in quel giorno di aprile nel quale ha deciso di por fine alla sua vita, e a quella di quanti hanno avuto la sventura di incontrarlo sul suo cammino all’interno del campus della Virginia e che nei giorni scorsi ha calamitato l’orrore del mondo. Alla serialità delle immagini, ispirate agli stilemi di una pellicola dell’orrore, il ragazzo ha aggiunto parole che aiutano a fare luce sulla follia esplosa in una mente e nell’animo devastati dall’odio e da un nihilismo distruttivo che oggi ci appaiono nelle loro reali dimensioni. Voi l’avete voluto, voi ricchi e fortunati, e dunque viziosi, voi non avete lasciata in me altra possibilità. Vengono alla mente i versi di un poeta, Edgar Lee Master, che aveva immaginato sulla tomba di un cimitero nella collina battuta dal vento: «Voi che vivete siete degli sciocchi, voi non conoscete di me che l’immagine che dà sul villaggio...».
E viene in mente il saggio, straordinariamente lucido, di un altro scrittore, questo dei giorni nostri, Hans Magnus Enzensberger, che ha per titolo: «Il perdente radicale». Sostantivo, e aggettivo, aiutano a togliere la strage seguita da suicidio del giovane coreano dal mistero nel quale come ogni prodotto della cronaca finirà per essere sepolto, passata l’emozione e sbollite le sterili polemiche sull’inefficienza della reazione della polizia, o sulla facilità con la quale tanti americani possono accedere al possesso delle armi.
Il perdente radicale, avverte Enzensberger, vive fra noi, l’anonimato che è proprio degli sconfitti nelle nostre società lo cela e lo protegge da interessi, siano pure soccorritori, per la sua persona. La nostra società dà vita, «in un processo caotico e indecifrabile a schiere di vittime, di soccombenti», dice l’autore, ed è in questa folla anonima di sconfitti che si produce, e al tempo stesso si cela, il perdente radicale, il quale «si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le energie e attende la sua ora» finché questa non esplode fra noi. Il «fantasma» che agita e motiva il perdente radicale è, insieme alla coscienza della sua sconfitta, e della sua vocazione a viverla fino in fondo, di qui la sua radicalità, la certezza che la colpa non risiede in se stesso ma negli altri, e solo in loro: la società, il potere, entità a volte suggerite da infatuazioni ideologiche, insieme al disagio che produce sofferenza, e che suggerisce soluzioni estreme, e distruttive. Enzensberger esemplifica. Il perdente radicale può essere il padre di famiglia, che ammazza la moglie, i suoi due bambini in tenera età, infine se stesso, evento rubricato di regola nella cronaca come tragedia familiare. Oppure, il perdente suggella la sua radicalità barricandosi in casa con qualche ostaggio, e dando vita a una sparatoria della quale finirà vittima, e si dirà allora che siamo dinanzi a una tragedia della follia, e del disagio sociale .
Enzensberger non conosce la tragedia vissuta dalla università della Virginia, ma la sua analisi del radicale perdente ci offre una traccia plausibile per spiegarne la radice profonda, che è culturale e sociale. Diventa assai più inquietante, l’analisi dello scrittore laddove egli, ed è il punto di arrivo del suo saggio, indica nel processo del radicale perdente il dramma che il mondo vive alle prese col fanatismo islamico il quale coniuga le debolezze della sua storia, dagli splendori di un'epoca mitica, indicata nel Califfato, alla attuale miseria identificando le ragioni della decadenza nelle colpe degli altri, ebrei, crociati, l’Occidente, l’America. Tesi, idee incontrate già nei saggi di Bernard Lewis, nei libri della Fallaci, in un recente bel volume, «Israele siamo noi» della nostra Fiamma Nirenstein.
a.

gismondi@tin.it

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