L’Altopiano e la guerra dei rimpianti

Magnaboschi: il nome di un rilievo modesto, familiare solo a chi abbia pratica minuta dell’altopiano di Asiago; o ai cultori della prima guerra mondiale, che in quell’area registrò uno dei fronti più caldi. Dettati da quelle vicende, ci rimangono alcuni bei titoli di letteratura memorialistica, come Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (1938), poi trasposto in un discreto film di Rosi. Nel 2000 Neri Pozza affidò a Mario Rigoni Stern la cura di un’antologia, La guerra sugli Altipiani. E oggi, forte di una pluridecennale confidenza con quei luoghi, Antonio Daniele - filologo uscito dalla scuola di Gianfranco Folena - ricostruisce in Magnaboschi (pubblicato dalle edizioni Cierre di Sommacampagna, pagg. 196, euro 12,50) alcune «storie di guerra, di scrittori e d’altopiano».
Peccato, lo dico sùbito, che a un libro così avvincente anche per l’abbondanza di particolari geografici e onomastici manchi il corredo di una cartina topografica. Dei sette capitoli, alcuni sono centrati su un solo personaggio (D’Annunzio, Gadda, Sbarbaro, Carandini), altri sul serrato confronto e raccordo fra personalità che si illustrano vicendevolmente. È il caso dei fratelli Carlo e Giani Stuparich, triestini e volontarî (come il concittadino Scipio Slataper, destinato a morire, il 3 dicembre 1915, su un diverso fronte, il Podgora).
Il 30 maggio del ’16, per non cadere in mano agli austriaci, che lo avrebbero condannato al capestro in quanto suddito austroungarico, Carlo si suicida. La tragedia produrrà in Giani un rimorso assurdo ma tenace. A guerra conclusa, tornerà più volte in pellegrinaggio sull’Altopiano, ricomporrà in libro gli sparsi scritti di Carlo e si sforzerà di far rivivere in più di una delle proprie opere spirito e doti del fratello perduto. Carlo e Giani dunque inscindibilmente legati perché il fratello superstite ha preteso che così fosse. Un rimorso analogo tormenta Gadda: annichilito dalla morte del fratello minore, Enrico, si accusa di non averlo saputo proteggere, lui che pur combatteva in una zona poco distante. Vorrebbe almeno renderne durevole il ricordo - come Giani Stuparich quello di Carlo - pubblicandone le lettere e altre carte. Ma un duro, inspiegabile divieto della madre, lo costringe a rinunciarvi.
Daniele fa buon uso di ogni materiale disponibile. Se i taccuini dannunziani, nella loro prodigiosa energia di «istantanee», saranno poi soggetti a decantazioni e a più lunghe «pose», dislocati e dilatati in opere successive, il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda dimostra nei fatti possibile quella forma-diario che teoricamente lo scrittore milanese escludeva. Gadda e D’Annunzio: un parallelo in quella stagione è lecito, si fa concreto nella comunanza di una tensione eroica, di una febbre di intervento che Gadda non smentirà nemmeno in séguito, salvo dichiararsi certo - a posteriori - che parecchie vite umane si sarebbero potute risparmiare, ove gli stati maggiori si fossero regolati con più giudizio.
I due capitoli più nuovi riguardano Camillo Sbarbaro e Nicolò Carandini. L’antologia di Rigoni Stern escludeva Sbarbaro: eppure nei Trucioli, nei Fuochi fatui e nelle Cartoline in franchigia spiccano periodi o frammenti non solo di ineguagliata espressività ma anche esplicativi di una originalissima riluttanza e ripugnanza alla guerra. Sbarbaro tuttavia patirà il contraccolpo di un dopoguerra nel quale - lo profetizzava con dolorosa ironia - si sarebbe sentito un alieno, «uno che non ha saputo morire a tempo». La natura dell’Altopiano - alberi, uccelli, insetti... - gli forniva estro ed argomento quotidiani a collocare in parentesi una guerra, alla cui «voce» Sbarbaro diceva di aver «fatto l’orecchio come già a quella del mare».
Di Carandini, che sarà esponente del miglior liberalismo italiano e, in questo dopoguerra, titolare di incarichi prestigiosi (ambasciatore, presidente dell’Alitalia...), i fogli che Daniele esamina sono inediti. Vergati nel 1968, a cinquant’anni dall’epilogo del conflitto, Carandini vi si prova a recuperare l’animo di quei giorni lontani, a reimmedesimarsi (un «ricordo del ricordo») in una esperienza di ufficiale che ebbe il suo più intenso teatro non sull’Altopiano ma sulla linea del Piave. Tenerla significava la vittoria; cederla, la sconfitta. Patisce a lungo, il giovane Carandini, il disagio di chi si sente un privilegiato, anzi un raccomandato (suo padre, che è nella carriera prefettizia, vorrebbe proteggerlo dai rischi peggiori). Se ne vergogna e sollecita i familiari a lasciarlo partire per il fronte: un arduo «contenzioso», finché, nel marzo del ’17, Nicolò riesce ad arrivare in prima linea.


A più riprese gli tocca sperimentare l’ottusità e l’irrazionalità della guerra, ma la sua penna riferisce anche episodî indimenticabili, di semplice virtù umana: tale è lo scambio di sigarette e battute (in che lingua?) fra le vedette austriache e le nostre, separate appena da «uno scudo di mitragliatrice», in un meraviglioso scenario di ghiacciai.

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