L’America di Obama è meno libera Ecco perché si intende con la Cina

Nel vertice con Hu Jintao il presidente adotta toni moderati sui diritti umani. Un rapporto svela che il tema non è in cima all’agenda del leader progressista

L’America di Obama è meno libera Ecco perché si intende con la Cina

Ci fa piacere, e ha fatto piacere a tutto il mondo, che Obama si sia ricordato durante il cerimonioso e anche economicamente promettente incontro con Hu Jintao che un presidente americano che non si ricordi dei diritti umani non è degno di chiamarsi tale. Il Difensore della democrazia che dimentichi il Dalai Lama non risulta credibile per nessuno, e tantomeno, poi, se è stato insignito di un Premio Nobel per la Pace sia pure ante litteram.
Condanne a morte seriali dopo processi inesistenti, aborto forzato, torture indicibili come quelle subite dal dissidente avvocato Gao Zhinsheng, per non parlare di quel che passa, lui e la sua famiglia, il nobel Xiaobo. Ma Obama, al contrario di Bush che sui diritti umani non la mandava a dire nessuno e al Dalai Lama rese gli onori di un Capo di Stato, ha sempre avuto, nessuno glielo nega, una forte sensibilità sociale e politica, ovvero un ascolto per il Terzo Mondo e l’Islam, tipico della sinistra mondiale: meno gli importa, apparentemente, della sofferenza causata dalla mancanza di libertà, specie quando occuparsene troppo mette in forse rapporti che Obama vede come essenziali della sua nuova politica estera, conciliatoria, a volte buonista.
Stavolta però ha accennato alla questione. Come mai? Ci viene in mente che sull’opportuna e fin troppo garbata richiesta a Hu Jintao di creare una società «armoniosa» creando maggior rispetto per i diritti di tutti, abbia influito il rapporto che il 13 gennaio ha diramato la «Freedom House» la Casa delle Libertà, un istituto che secondo parametri eguali negli anni per tutti i campi della vita politica e civile, misura la salute della democrazia. Con buona pace di Obama, si va di male in peggio in tutto il mondo. La sua America non ha una buona influenza. In sostanza, il 2010 è stato un anno di notevole declino dei diritti umani e, dice il direttore esecutivo del gruppo David J. Kramer «Non solo i nostri avversari danno vita a una larghissima repressione, ma lo fanno con una aggressività e una fiducia in se stessi senza precedenti. E questo, perché la comunità democratica non raccoglie la sfida».
Il rapporto si occupa di 194 Paesi e di 14 aeree in cui viene suddiviso il mondo: la Cina, l’Egitto, l’Iran, la Russia, il Venezuela sono i primi ad aver reso la vita di chi non si identifica con i loro regimi ogni giorno più difficile. E nessuno è venuto in aiuto ai dissidenti. Nel 2005 il numero delle democrazie elettive era pari a 123, adesso siamo tornati al livello del 1995, il livello più basso: 115 democrazie. In generale, 25 Paesi mostrano un significativo declino delle loro liberta civili e politiche. È molto interessante come il rapporto di Freedom House spieghi che, ed è una novità, i governi autoritari non solo si adoperano per i loro interessi a casa loro, ma fanno una quantità di efficace politica estera: basta pensare al lavoro senza vergogna e con successo compiuto dalla Cina per impedire una presenza internazionale compatta alla consegna del premio Nobel a Liu Xiaobo; basta ricordare l’arroganza strombazzata con cui di nuovo in Russia, con un processo che molti hanno considerato fraudolento, è stato condannato l’ex magnate del petrolio MIkhail Khodorkowsky. E il mondo non dice niente.
asta ricordare a come sono stati di fatto abbandonate a se stesse le masse dei dimostranti che dopo le elezioni iraniane chiedevano la revisione dei risultati ricevendone in cambio, botte, spari, incarcerazioni, morte. Né si può dimenticare quanto siano flebili e anzi inconsistenti le proteste internazionali contro le persecuzioni contro i cristiani nel mondo islamico, quanto si ignori nelle sedi internazionali e diplomatiche la massiva violazione dei diritti delle donne, la messa a morte degli omosessuali, lo sfruttamento minorile, l’antisemitismo genocida che ormai ha preso tranquillamente piede.
Una dirigente della Freedom House, dopo aver elencato i Paesi e i territori che soffrono della mancanza di ogni libertà (fra i primissimi il Tibet,Burma, la Guinea Equatoriale, l’Eritrea,la Libia, il Nord Corea, la Somalia, il Sudan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan e, come aree il Medio Oriente e il Nord Africa) ha spiegato che quando il mondo esterno non manda segnali di resistenza un silenzio di morte cade sui dissidenti. Ma se gli Usa non gridano, l’Europa in genere neppure cinguetta, è sempre stato così.
Freedom House è un’istituzione «liberal», è vicina al cuore del presidente Obama, anzi, talvolta viene accusata di essere più gentile del necessario con i Paesi con cui il presidente ha tavoli diplomatici e commerciali aperti, o di sfavorirne altri solo perché hanno governi di destra. E tuttavia, facendo il suo mestiere, ovvero lanciando un allarme mondiale circa la diminuzione dei diritti umani, suggerisce un’imbarazzante verità: che non è stato questo il primo pensiero della presidenza Obama.
Lo si è visto nelle visite nel mondo arabo, in Cina, in America Latina.

Ma la visita cinese, sullo sfondo di un deterioramento mondiale dei diritti umani, stona col colore del Premio Nobel per la Pace, e anche con i colori della bandiera americana. Dunque, forse si apre un nuovo periodo, e allora meglio tardi che mai.

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