L’anti Di Pietro se ne va "Basta giustizia show"

Il commiato amaro dell'avvocato Spazzali, protagonista all'epoca di Mani pulite: "Oggi c’è la doppia aula: il tribunale e la tv"

L’anti Di Pietro se ne va 
"Basta giustizia show"

Milano - Giuliano Spazzali se ne va. Finisce gli ultimi processi, perché i clienti non si mollano a metà del guado. Poi appenderà la toga in un armadio e - tranne per un solo, preciso impegno - si occuperà di altre cose. Lo fa a sessantanove anni, un’età a cui un impiegato è in pensione da un pezzo ma che per un avvocato sono gli anni della pienezza, della maturità. Lo fa per tanti motivi. Il più visibile, quello che costringe a qualche riflessione, è che non gli piace più il modo in cui si fa oggi l’avvocato a Milano e in Italia.
Avvocato, il suo è un mestiere che in genere si fa fino alla tomba. Nelle settimane scorse due grandi vecchi del palazzo di giustizia milanese, Ernesto Pecora e Renato D’Auria, se ne sono andati praticamente con la toga addosso. Lei invece molla.
«Non mi do alla latitanza, sia chiaro. Se qualcuno busserà ancora alla mia porta lo indirizzerò da colleghi di cui mi fido. Ma dopo quarantacinque anni che ti spremi come un limone, devi chiederti se produci ancora sugo o se di te è rimasta solo la scorza».
Lei che cosa si è risposto?
«Ho scoperto, all’improvviso, per caso, di essere vecchio. Quando ho iniziato questa professione c’erano degli avvocati da cui ho imparato cose importanti, che però consideravo vecchi; pensavo che si dovesse superarli perché era il loro tipo di sapere ad apparire inadeguato ai tempi nuovi. Oggi sono io a sentirmi superato».
Non dica così. Ci si può sempre adeguare.
«Ma io non mi voglio adeguare. Quando ho iniziato, l’albo degli avvocati di Milano era alto un mignolo: oggi è alto una spanna. Dodicimila, tredicimila avvocati, ragazzi che entrano in questa professione saltando a piè pari quella fase di formazione decisiva che era la gavetta negli studi, il precariato, il praticantato. Non è un bene né un male, è il riflesso inevitabile della globalizzazione. Ma ha cambiato radicalmente la natura del nostro lavoro. Una volta esisteva una professione liberale. Oggi esiste un lavoro terziarizzato, a metà tra il commercio e i servizi, dove la concorrenza tra avvocati si traduce in una furibonda lotta tra poveri per accaparrarsi il cliente».
C’è rimedio?
«In parte no. In parte si possono limitare i danni. E io dedicherò una parte del mio tempo a un progetto che è una sorta di tenda iperbarica, come quelle per rianimare gli annegati, dove si pompi sapere per ricostruire una identità socialmente significativa del lavoro di avvocato. Altrimenti, mi si passi il termine, tutto diventa merda. Sangue buono in questo lavoro ce n’è, ma bisogna attivarlo e metterlo in circolazione».
Spazzali, almeno per ora, non vuole scrivere le sue memorie. Ma il giorno che lo facesse, in quel libro ci sarebbe per intero quasi mezzo secolo di storia giudiziaria e politica di questo Paese. «Dovevo fare il civilista, al processo penale ci sono arrivato per caso, non ho neanche fatto l’esame di procedura», dice. Ma quell’incontro casuale si è trasformato in una passione totale. Dai processi politici degli anni Settanta, con Spazzali in prima fila nel «Collettivo di difesa» degli imputati dell’ultrasinistra, a quelli per la malavita organizzata, con la lotta furibonda ai «pentiti» (che Spazzali definì senza mezzi termini «psicopatici»), fino allo scontro in mondovisione con Antonio Di Pietro nel processo clou di Mani pulite, la difesa di Sergio Cusani per l’affare Enimont. La biografia di un avvocato senza schemi, pronto a difendere da Scientology al mostro di Leno con la stessa determinazione. E sempre con l’aria, in fondo, di divertirsi.
Sembra di capire che ora non si diverta più.
«E come ci si può divertire? Ormai l’aula, il dibattimento, non esistono più. Esistono i riti alternativi, il giudizio abbreviato, il patteggiamento, che magari portano qualche vantaggio ma comportano la rinuncia totale alla ricostruzione della verità. Si va a litigare sulla punteggiatura, sulla stravaganza di certi rapporti di polizia».
Un processo come quello di Cusani oggi sarebbe possibile?
«Non sarebbe possibile nella sua essenza di processo vero, combattuto. Sarebbe possibilissimo nel suo aspetto mediatico, che anzi ha fatto scuola e si è moltiplicato. Con la differenza che allora la spettacolarizzazione del processo aveva per Di Pietro un obiettivo preciso, oggi è del tutto fine a se stessa ed è diventata norma. Una norma non scritta ha istituito la doppia aula del foro televisivo e del tribunale».
Si riguarda mai, in quelle vecchie immagini?
«Mai viste, né allora né dopo. Un giornalista della Rai mi ha regalato la collezione completa in vhs delle udienze ma non le ho mai nemmeno infilate nel videoregistratore. Una sola volta, credendo di farmi un piacere, degli amici misero uno spezzone in cui parlavo. Ci rimasi malissimo. Davvero ho detto così? Ma no, avrei dovuto dire tutt’altro...».
Quanto le costa, emotivamente, togliersi la toga?
«Assolutamente niente. L’unica strada percorribile nella vita è il dubbio, e io sono profondamente dubbioso che nulla di quel che ho fatto valga la pena di essere ricordato.

Non ricordo più quanti processi ho fatto, quante corti d’assise, quante cassazioni. Non ho rimpianti perché non ho sensi di colpa. Mi riempirò di cose da fare, di arte, di letteratura, senza scopo alcuno, senza finalità che il puro godimento. Morire facendo questo lavoro? Non ci penso neppure».

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