Jacob Burckhardt, almeno professionalmente, fu un uomo molto fortunato: visse nel luogo e negli anni più adatti per esercitare il lavoro dello storico. Svizzero di lingua tedesca, poté partecipare a pieno titolo al fenomeno di vera e propria rifondazione della storia come scienza sociale al quale ci si dedicò nella nascente Germania nel corso di tutto lOttocento. E Burckhardt attraversò tutto il secolo, dal 1818 al 1897, esercitando il proprio sapere e la propria fantasia di storico.
In quegli anni la nuova scienza era alla ricerca di un carattere, non conosceva le regole meticolose e i ritegni che sarebbero nati in seguito. Soprattutto non aveva una tradizione a cui riferirsi. Stava cambiando come genere letterario. Fino a tutto il Seicento e a buona parte del Settecento nessuno si sarebbe neppure sognato di riscrivere la storia del passato: si considerava esaurita questa funzione da parte di chi laveva esercitata allepoca. La storia greca era quella narrata da Erodoto, Tucidide e Senofonte, quella romana da Tito Livio e Tacito. Napoleone studiò le campagne di Cesare sul De bello gallico e le riflessioni che fece a proposito non sono quelle di un filologo, ma quelle di un militare. La storia si leggeva sui testi tramandati dalla classicità, che venivano accettati nella loro interezza, senza mediazione critica.
La novità si affacciò alla metà del Settecento e suggerì unidea nuova e assolutamente rivoluzionaria: per studiare la storia è meglio essere distanti dai fatti raccontati, piuttosto che vicini a essi. Si rovesciava un presupposto fondamentale. Per un greco sarebbe stato evidente il contrario: Erodoto, il fondatore della storia, aveva posto alla base del suo lavoro lautopsia, laver visto con i propri occhi o almeno aver incontrato qualche testimone oculare dei fatti che si raccontavano.
Rovesciato il paradigma, stabilito che la distanza temporale faceva depositare le impurità che intorbidavano lacqua e consentiva allosservatore di scorgere con maggior nitidezza i contorni dellaccaduto, si aprivano territori immensi per chi volesse cimentarsi con il passato. Raccontandolo, ma anche ricreandolo, individuandone aspetti che fino a quel momento erano rimasti in ombra, o erano stati raccontati da persone troppo coinvolte negli accadimenti. La storia non era ancora solidificata nelle forme che conosciamo, organizzata in sezioni e appoggiata su cognizioni così affondate nellimmaginario collettivo da non riconoscerne quasi più il carattere interpretativo. A metà Ottocento tutto era ancora possibile per lo storico, aveva davanti un materiale duttile, che aspettava di essere plasmato.
Burckhardt seppe approfittare in maniera esemplare delloccasione che gli capitava e scrisse alcuni testi che hanno contribuito a formare la nostra visione del passato. Nella sua produzione spicca La civiltà del Rinascimento in Italia, scritta appena trentenne, nel 1860. Un libro che non può mancare nella biblioteca di una persona mediamente acculturata. Per capirne il valore non occorre intraprenderne la lettura. Si tratta di una di quelle opere che si fanno apprezzare fin dallindice. Cito i titoli della prime tre parti: «Lo stato come opera darte», «Lo svolgimento dellindividualità» e «Il risveglio dellantichità». Poche pennellate tracciano i contorni di tematiche alle quali ancora si dedicano convegni, libri, seminari, corsi, senza che si esaurisca linteresse attorno ad esse.
Burckhardt attraversa queste tematiche con leggerezza e competenza, come un viaggiatore avvertito. E il suo atteggiamento da ricercatore era in effetti itinerante. Raccontava la storia dei luoghi che vedeva, andava dove i fatti si erano svolti per cogliere sul posto laura degli accadimenti, per riconoscerne almeno le tracce di superficie, le evidenze ambientali. Il suo incontro con lItalia fu determinante per la storiografia successiva. La sua opera costituisce infatti uno dei più solidi puntelli allidea di Rinascimento che comunemente abbiamo.
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