L’astensione è il modo migliore per rifare la legge

Paolo Armaroli

Per i partiti il referendum è stato sempre una brutta bestia. Un po’ perché le oligarchie partitocratiche, ma sì i soliti manovratori, non amano essere disturbate più di tanto. E un po’ perché l’eterogenesi dei fini (con la effe rigorosamente minuscola) sovente ha giocato un’infinità di scherzi. Così si è dato il caso che chi è salito in groppa ai referendum convinto di arrivare vittorioso al traguardo, è stato sbalzato di sella e si è rotto l’osso del collo. Mentre talora è capitato il contrario. Chi si opponeva a questo o quel referendum ha finito per beneficiarne. Tanto per fare un esempio clamoroso, nel 1993 Fini (stavolta con la effe maiuscola) era fieramente avverso al referendum che ha portato a un sistema elettorale per tre quarti maggioritario, nel timore che il Msi sarebbe rimasto a grattarsi la rogna all’opposizione chissà per quanti altri decenni. E invece il sì fece la sua fortuna.
Anche grazie a Berlusconi, si capisce, uomo della previdenza e della Provvidenza al tempo stesso. Della previdenza, in quanto se non si fosse alleato al Nord con la Lega e nel Centrosud con un Msi che di lì a poco avrebbe tenuto a battesimo Alleanza nazionale, mai e poi mai avrebbe battuto nel 1994 la gioiosa macchina da guerra di Occhetto. E della Provvidenza, dal momento che ha consentito al Msi, fino ad allora escluso dal cosiddetto arco costituzionale, di diventare dall’oggi al domani forza di governo. Proprio per il timore dell’eterogenesi dei fini, l’anno scorso sono spuntate come funghi alla Camera e al Senato proposte di legge volte a evitare i referendum sulla procreazione assistita.
Ma la discussione sulle varie iniziative legislative alla commissione Igiene e sanità di Palazzo Madama si è protratta per sole tre sedute. E precisamente dal 20 ottobre 2004 al 26 gennaio di quest’anno. Pensa e ripensa, alla fine è stata gettata la spugna. Non è mancata solo la volontà politica, visto e considerato che si è proceduto in ordine sparso. Ma si è frapposto soprattutto l’ostacolo insormontabile rappresentato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. In una sua storica sentenza, la numero 68 del 1978, la Consulta ha infatti stabilito che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum viene accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettua sulle nuove disposizioni legislative. In poche parole, modifiche meramente cosmetiche non sarebbero servite a niente. Pertanto il legislatore avrebbe dovuto soddisfare immediatamente le finalità proprie dei quesiti referendari. Che è un po’ come pretendere che i tacchini reclamino l’anticipo delle feste di Natale.
Ciò premesso, dopo lo svolgimento dei referendum quali saranno i vincoli per il legislatore? Se vince il sì all’abrogazione, il legislatore per cinque anni, per analogia con quanto disposto dall’articolo 38 della legge di attuazione del referendum, non potrà intervenire sulle modifiche introdotte. Se vince il no, al popolo sovrano la legge sulla procreazione sta bene così com’è. Perciò il legislatore per cinque anni non potrà cambiare neppure una virgola. Se invece l’astensione dal voto non farà raggiungere il quorum, il referendum non sarà valido. Come se non si fosse mai tenuto. Ecco, solo in quest’ultimo caso il legislatore potrà intervenire a piacimento sulla legge. Si tratta dell’ipotesi ottimale. Perché gli stessi fautori della legge non escludono qualche ritocco.


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