Cronache

L’avventura di essere giornalisti 24 ore su 24 per raccontare la vita

Rino Di Stefano ricorda l’epoca di Zamorani e di Merani e l’amore per la notizia ad ogni costo

Ho trascorso ventisei anni della mia vita di giornalista professionista al Giornale. A parte una parentesi di tre anni nella sede centrale di Milano, tutti gli altri li ho passati nella di Genova. Appartengo alla seconda ondata, cioè a quella successiva a Manzitti e Paternostro. A farmi assumere è stato Massimo Zamorani, diventato capo redattore dopo la prematura scomparsa di Luigi Vassallo. Zamorani era, ed è, un vero giornalista. Già inviato del Secolo XIX, non era uno di quei personaggi che amasse poltrire su una sedia. «Non si fa il giornalista alzando il telefono», mi diceva. E sosteneva che, quando succede qualcosa, bisogna andare di persona, vedere, controllare, intervistare chi si trova sul posto, verificare. E dopo, solo dopo, ci si può mettere a scrivere. Io condividevo, e continuo a condividere, questa concezione del nostro mestiere. Per cui non me la prendevo quando mi mandava nei posti più impensabili per fare un servizio. Anzi, mi divertivo. Quel gusto dell'avventura che lui trasmetteva ai più giovani, come complemento dell'essere giornalisti, lo condividevo in pieno. E mi mancò moltissimo quando, nei miei ultimi undici anni in , come capo servizio, ero costretto a svolgere soltanto lavoro redazionale.
Per cui mi fa piacere ricordare di quando un giorno mi mandò letteralmente in cima ad un monte per intervistare una donna, non mi ricordo più neanche per quale motivo, e mancò poco che non ci riuscissi. Nella mente mi appare la scena di una «creuza» di montagna che ad un certo punto diventa un sentiero senza apparente sbocco. Erano ore che camminavo e, ad un certo punto, ho pensato di desistere e tornarmene indietro. Ma non volevo arrendermi, fargli vedere che non ce l'avevo fatta. Continuai fino a quando, in lontananza, non vidi un casolare. E feci la mia intervista. Ma ricordo anche quando, insieme a lui, una notte andai sul fronte di un incendio che aveva fatto chiudere l'autostrada. Avevo con me una macchina fotografica e immortalai, nel buio più assoluto, le fiamme che lambivano le corsie. Da qualche parte conservo ancora quella foto. Oppure quella volta che ci recammo sulle alture di Bargagli, dove era caduta una piccola meteorite. Con incredibile fortuna, ne trovammo i resti.
Certo, aveva le sue idee, che a volte non condividevo, ma rispettavo. Comunque sia, l'ho sempre considerato un maestro.
Ero grato a Zamorani soprattutto perché mi aveva fatto assumere nel quotidiano diretto da Indro Montanelli. Ne avevo letto tutti i libri e, come molti giovani cronisti della mia generazione, ne avevo fatto un simbolo. Per cui si può immaginare che cosa provavamo, io e gli altri colleghi, sapendo che ognuno di noi era parte integrante del Giornale guidato da una leggenda vivente del giornalismo italiano.
Ricordo la prima volta che Montanelli, insieme ad Alberto Pasolini Zanelli, venne a trovarci in , quando ancora eravamo in piazza Savonarola. Per noi fu una festa. Alto, magrissimo, cordiale e alla mano, restò con noi per buona parte della giornata. Andammo a pranzare, tutti insieme, in un ristorante di Boccadasse. Mangiava pochissimo: si fece servire soltanto un piattino di bianchetti, conditi con un filo d'olio. Dopo quell'occasione lo rividi diverse altre volte, soprattutto quando mi recavo a Milano come delegato sindacale della di Genova. E me lo ricordo bene il giorno in cui la nostra università gli consegnò una laurea ad honorem. L'allora capo redattore Luciano Basso, ed io, andammo a prenderlo in albergo. Lo scortammo fino in via Balbi, assistemmo alla sua lectio magistralis, al conferimento della laurea e restammo con lui per un bel pezzo. L'ultima volta che vidi Montanelli fu a Milano, il giorno in cui ci comunicò che se ne sarebbe andato. Era martedì 11 gennaio 1994. Con in mano una copia del suo ultimo libro, «L'Italia degli anni di fango», bussai alla porta del suo studio e gli chiesi una dedica. Con lui c'erano Granzotto e altri. Me la fece, gli diedi la mano e me ne andai. Avevo un nodo in gola.
Un'altra persona che rappresentò molto per la di Genova era Amedeo Massari, l'amministratore delegato della nostra casa editrice. Massari, toscano trapiantato a Genova, per tutti noi era una specie di papà. Con lui ci sentivamo sicuri, sapevamo di far parte di una famiglia. Ed è vivido nella memoria il ricordo di una gita che insieme a lui facemmo una domenica a Novi Ligure. Massari era davvero un grand'uomo e, senza dubbio, uno dei geni dell'editoria italiana. Avevamo affetto per lui e fu un colpo quando una brutta malattia se lo portò via anzitempo. È a lui che oggi è dedicato il centro stampa del Giornale a Milano.
Pensando a quegli anni, un ricordo particolare lo devo a Umberto Merani. Merani, il nostro esperto di politica, era davvero un personaggio. Avevo la scrivania accanto alla sua e così assistevo, mio malgrado, alle sue quotidiane lotte con il computer. Avevano messo i videoterminali in nel 1982 e a lui non erano piaciuti fin da subito. Bastava sbagliare un tasto e si rischiava di perdere il pezzo che si stava scrivendo. E succedeva. Per cui, quando la disgraziata evenienza capitava, cominciava a prendere a pugni i lati del computer urlando: «Maledette macchinette!». Tra un articolo e l'altro, ogni tanto mi raccontava dei tempi in cui era al Lavoro, con Sandro Pertini come direttore. E si lamentava di quando il futuro presidente, senza dirgli niente, improvvisamente lasciava la per andare a Roma. Così la responsabilità di fare il giornale finiva per cadere sulle sue spalle, che era il vice. E non gli piaceva per niente. Del resto, dopo la morte di Vassallo, avevano offerto a lui il ruolo di capo redattore, ma non ne aveva voluto sapere. Merani voleva fare il battitore libero, voleva scrivere. Non stare dietro ai mille problemi, grandi e piccoli, che nascono mentre si preparano le pagine dell'indomani. Anche perché, e lo dico a rischio di apparire politicamente scorretto, giornalista è colui che fa il giornale, non chi di tanto in tanto scrive un pezzo che viene ospitato su un giornale. A riempirsi la bocca del titolo di «giornalista» si fa presto, soprattutto se si fa un altro mestiere. Ma i veri giornalisti sono soltanto coloro che del giornale sanno fare tutto: dalla breve di cronaca nera all'ampio articolo di costume, dal disegnare una pagina al saperla completare con titoli e fotografie appropriate, dal progettare un grafico esplicativo (e farlo realizzare) al saper telefonare al politico di turno per avere eventuali chiarimenti. Quello è il giornalista professionista, non altri.
E, a questo proposito, vorrei concludere con un omaggio ai miei colleghi della di Genova che tutti i giorni, quando nevica e quando c'è il sole, comprese tante feste comandate, stanno dal mattino fino a tarda sera davanti ai loro videoterminali per far uscire l'edizione del giorno dopo. Tra giornalisti e impiegati sono rimasti in pochi, ma tutti con una grandissima professionalità. E il loro lavoro è lì, ogni giorno, sotto gli occhi di tutti, anche se spesso il lettore poco attento non riesce neppure ad immaginare quanta fatica e quanti sacrifici ci siano in quelle pagine.
Personalmente ho visto tramontare un'epoca e ho vissuto l'arrivo della nuova. Ci aspettano tempi diversi e nessuno può dire che cosa porterà il futuro.

Ma mi auguro che, a prescindere da tutto, la di Genova un giorno possa celebrare i suoi secondi 35 anni di attività.

Commenti