L’avversione di Barney per i lettori

Nel volumetto Mordecai torna il Diario di un ambulante, in cui Richler descriveva il grottesco rito delle presentazioni in libreria. E il figlio Noah fa rivivere il padre sul set del film con Dustin Hoffman

L’avversione di Barney per i lettori

«E rano i giorni felici in cui noi scrittori potevamo permetterci di guardare i piazzisti, quei disgraziati che giravano da una città all’altra con la loro valigetta di campioni, dall’alto in basso: adesso - anzi, da un pezzo - li consideriamo per quel che sono, colleghi». Quel «noi scrittori» suona un po’ stonato, uscendo dalla penna di Mordecai Richler, uno scrittore, appunto, che non ama la prima persona plurale, preferendo di gran lunga la prima e la seconda singolari, più acconce all’autobiografismo. Però la battuta (che poi battuta non è, bensì semplice constatazione) tratta da Diario di un ambulante rende bene l’idea. L’idea, cioè, della... «travetizzazione» dell’autore. Di tutti gli autori, grandi e piccoli, celebri e sconosciuti. Preso nel tritacarne del «firmacopie» e delle presentazioni, anche Mordecai-Barney porta dunque il suo obolo di noia, disinteresse, estraneità e, ovviamente, ironia prettamente ebraica a quella che potremmo chiamare, parafrasando un’espressione oggi largamente usata, «fabbrica del miele».
Diario di un ambulante apparve nel 2001 sulla rivista Adelphiana. Il 2001, ricordate? L’anno del boom italiano di Richler, oltre che, incidentalmente, della sua morte. Con Giuliano Ferrara in brodo di giuggiole, i «foglianti» (naturali e acquisiti) in allegra processione dietro il loro pifferaio magico e La versione di Barney che, sostenuta dal peso di cotanto sponsor, andava via come il pane in tutte le librerie à la page. E proprio oggi tornano, quelle sedici pagine, nel nuovo catechismo del culto richleriano, rilanciato dal film di Richard J. Lewis con Paul Giamatti e Dustin Hoffman, a dieci anni di distanza. Le fanno compagnia, nel volumetto dal titolo Mordecai (pagg. 106, euro 7, naturalmente per Adelphi), Papà, il film e io, l’affettuoso memoir del figlio Noah, e Mordecai remix, di Matteo Codignola, il traduttore del romanzo.
Chi lo conosce un po’, già immagina come il Nostro abbia potuto affrontare le micidiali FAQ dei lettori. Ecco un esempio. Domanda: «Usa il computer?». Risposta: «Ma figurarsi, la mattina appena alzato indosso una vestaglia di seta Armani e le babbucce cifrate di Dior. Solo a quel punto mi sento pronto a brandire la penna d’oca». Molto barneyano, molto richleriano... Poi ci sono quelli che un collega di Richler, a lui affine per timbro caustico e umanissimo cinismo, il nostro Luciano Bianciardi, chiamava «i tafanatori». Come il tale che chiede una dedica autografa per la moglie Judith. «Qualcosa di spiritoso», mendica. E poi, di fronte all’imbarazzo dell’interlocutore («buttarla sul personale mi riesce un po’ difficile»), taglia corto: «Fa niente. Tanto mi sa che non riesce a finirlo. È una malata terminale».
Quanto poi al figlio Noah, sembra un clone di papà, mentre si aggira sui set di Barney’s Version. Ci regala alcune rivelazioni: «Ho proposto io di spostare la parte della prima moglie a Roma , dove in effetti era nato l’amore fra mio padre e mia madre»; e i bambini, usati come scudo umano fra sé e i lettori ai festival letterari. Dissemina pizzichi di gossip, con, Hoffman che sbotta: «Ecco perché mi piace lavorare con Clint Eastwood. Buona la prima o la seconda. Tu vieni uno schifo, lui si becca cinque stelle». Sorride e fa sorridere: «Una volta papà mi ha mandato in sinagoga al bar mitzvah di un amico in giacca a vento e scarpe da ginnastica. Pensava che sarebbe stato divertente».

E medita commosso: «sentivo quel mondo, cui io e la mia famiglia appartenevamo, entrare nel territorio dei libri fuori stampa e delle leggende orali, che svaniscono insieme a chi le raccontava».
In fondo, suo papà era e resta un miscuglio di leggende orali e scritte, quelle che ha ascoltato e quelle che ha messo nei suoi libri.

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