L’ECONOMIA DEL BUON SENSO

Ci sono due considerazioni di metodo da fare sulla manovra fiscale approvata ieri. La prima riguarda banalmente i tempi. È uno di quei casi in cui forma e sostanza coincidono in modo formidabile. L’aver sottratto alle imboscate degli interessi particolari, non al Parlamento che l’ha votata, l’approvazione dei conti per i prossimi tre anni, è un’innovazione fondamentale. E anche una responsabilità più diretta per l’esecutivo. Se la manovra dovesse rivelarsi recessiva come l’opposizione sostiene, non ci sarebbero scuse da far valere. Tutto è chiaro. È un metodo che fa bene alla democrazia e non il contrario come qualcuno strumentalmente lamenta.
Una seconda considerazione riguarda il mix delle misure adottate. Il motivo di fondo è quello di rendere la vita più semplice per le imprese. Il provvedimento contiene tutta una serie di norme pensate per rendere più competitiva la nostra struttura produttiva, che per il 90 per cento è fatta da piccole e medie imprese. Forse i ministri Sacconi e Brunetta esagerano nel quantificare in 4 miliardi di euro la riduzione di costi che norme di buon senso comporteranno per le aziende italiane. Ma certamente ci sarà un beneficio e, soprattutto, è indicata una direzione: lo stato si rende conto di essere ingombrante e cerca disperatamente di farsi da parte. Un lasciar fare e lasciare passare burocratico che non è sinonimo di disattenzione per le regole, ma è una semplice inversione dell’onere della prova: l’azienda, l’imprenditore, il cittadino fa bene fino a prova contraria. E non si pretende, come fino ad oggi è avvenuto, che i singoli giustifichino a priori la correttezza dei propri comportamenti. Una piccola rivoluzione, che ha un peso nei conti dei profitti e delle perdite, ma soprattutto ha un significato politico.
Il Giornale ha sempre ritenuto, infine, che la via maestra per lo sviluppo e la correttezza dei rapporti Stato-cittadini passasse per una forte riduzione fiscale. La manovra con la Robin Tax (che per definizione si scaricherà o sugli azionisti delle società colpite o sui consumatori) ha invece dato un altro colpettino.

La questione è rimandata all’autunno e al dibattito sul Federalismo fiscale. Questo esecutivo non ha certo bisogno che gli si ricordi come la liberalizzazione più importante resti quella dall’oppressione fiscale.
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