«L’epatite non è più una condanna a morte»

«L’epatite non è più una condanna a morte»

Luigi Cucchi

L’epatite cronica virale non è più una condanna a morte. I virus dell’epatite B e C, all’origine di cirrosi epatiche e carcinoma al fegato, si possono combattere con ottimi risultati. In questi ultimi anni la medicina ha compiuto grandi passi avanti nella cura delle malattie epatiche: le conoscenze sono aumentate e l’impiego di nuovi farmaci, come l’interferone e la ribavirina ha allungato la vita a migliaia di pazienti. Si sono modificate le terapie, ora sempre più personalizzate, protratte fino a 48 settimane e adeguate alle risposte dei pazienti. Allungando i tempi di cura che vengono modulate in base alle reazioni dei malati, si è riusciti ad ottenere risposte positive anche nel 30% di quei pazienti che non davano alcuna risposta e che fino a pochi anni fa rappresentavano il 40% dei 27 milioni di persone che in Europa soffrono di malattie epatiche, di cui 8,5 milioni di epatiti virali.
Incontriamo il professor Massimo Colombo per una analisi sulle più recenti conquiste della medicina nell’area delle epatiti croniche, che colpiscono oltre un milione di italiani, di questi diverse decine di migliaia sono in terapia con farmaci antivirali (interferone e ribavirina). Oltre al virus vi sono numerosi cofattori che aggravano la malattia: l’alcol e il grasso. Nuovi studi indicano le terapie più efficaci e aprono scenari nella lotta alle malattie virali che insidiano il fegato.
«Nella seconda parte degli anni Novanta abbiamo capito – ricorda il professor Colombo - l’importanza di personalizzare il più possibile la terapia. Si deve intervenire adeguando lo schema ideale di cura alle reazioni del paziente. La terapia deve considerare il peso corporeo e le reazioni dell’organismo. I farmaci somministrati (interferone e ribavirina) devono essere modulati. Per battere l’infezione occorre impiegare alte dosi farmacologiche, soprattutto nelle fasi iniziali, ma controllando e riducendo gli effetti collaterali: anemia, bassi globuli bianchi, febbre, malessere, depressione. L’epatite cronica va comunque aggredita precocemente. La dose farmacologica piena va mantenuta per almeno sei mesi. Se nei primi tre si registra una caduta della carica virale (da un milione a meno di diecimila) vi sono ottime probabilità di guarigione: tre pazienti su quattro guariscono se le cure vengono protratte per 12 mesi. In questi ultimi dieci anni la guarigione è passata da 3 a 5 volte, nel caso di pazienti con genotipo 1, cioè quelli che rispondono meno alla terapia. Dopo 10 anni di cure si può registrare un tasso di guarigione del 20-25%».
Colombo, nato a Vigevano nel 1946, è direttore del dipartimento di malattie dell’apparato digerente ed endocrinologia dell’università di Milano. È una cattedra prestigiosa, fino al 1991 è stata del professor Nicola Dioguardi (di cui Colombo era allievo), riconosciuto nel mondo tra i grandi padri dei moderni studi sul fegato. Oggi l’università di Milano continua ad essere uno dei primi centri al mondo per le ricerche avanzate in epatologia. Altre città italiane sono all’avanguardia internazionale: le ricerche condotte all’ospedale Molinette di Torino sono state anch’esse determinanti nel far progredire la diagnosi e la terapia delle malattie epatiche. Proprio a Torino, Rizzetto, quando era un giovane medico, ha individuato per primo al mondo il virus dell’epatite Delta. Oggi si distinguono in Italia per le loro ricerche i Centri di Padova, Bologna, Palermo, che hanno dimostrato di saper percorrere le strade più innovative delle nuove frontiere dell’epatologia, assieme agli Istituti di eccellenza di Londra, Parigi, Barcellona. Oltre Atlantico, negli Stati Uniti, vi sono le scuole epatologiche di Bethesda nel Maryland, di Miami in Florida, di San Francisco in California, di Boston nel Massachusetts, di Rochester nel Minnesota.
Nel dipartimento guidato dal professor Colombo, autore di oltre 300 pubblicazioni sulle più qualificate riviste scientiche internazionali, svolgono la propria attività trenta epatologi, sono visitati 130-150 pazienti al giorno, oltre 30mila ogni anno, sono in cura 300 pazienti per epatite C, vengono seguiti 600 malati ai quali è stato trapiantato il fegato e curati altri 150 per carcinoma epatico. Ogni giorno, in day hospital, si effettuano almeno dieci biopsie di natura diagnostica o terapeutica. Colombo è editor in chief del Journal of Hepatology, una delle più qualificate riviste scientifiche al mondo, rivista ufficiale della Società europea di epatologia.
Il fegato, il nostro laboratorio biochimico, continua a stupire gli studiosi. Fino a pochi anni orsono si pensava che il fegato fosse indifferente al grasso, oggi si sa con certezza che la statosi (fegato grasso) è all’origine di gravi malattie.
«L’accumulo di grasso causa steatosi epatica non alcolica, una degenerazione causata da uno stress ossidativo delle cellule epatiche. Un italiano su quattro – afferma il professor Colombo – ha grasso nel fegato che può causare infiammazione ed in alcuni casi cirrosi. È una malattia metabolica associata con frequenza al diabete di tipo 2 dell’adulto, alla dislipidemia, al soprappeso. Quindici anni orsono non ne conoscevamo l’esistenza oggi sappiamo che può essere grave. Il grasso non danneggia quindi solo l’apparato cardio-circolatorio, colpisce anche il fegato».
Una ricerca condotta negli Usa ha dimostrato l’impatto dell’obesità sul grado di malattia epatica. È stato evidenziato che il trattamento con peginterferone alfa-2b associato a ribavirina, basato sul peso corporeo, ottiene un tasso più elevato di risposta virologica sostenuta, rispetto ad altri protocolli standard.
Sono migliorate le cure dell’epatite C, ma anche le terapie dell’epatite B. «Oltre all’impiego dell’interferone abbiamo nuovi farmaci, somministrabili per via orale, come gli analoghi nucleosidici, che simulano porzioni del Dna del virus B, sono ben tollerati. Sono nati con lo sviluppo delle ricerche farmacologiche sull’Hiv. Fino a 5-6 anni fa, prima dello messa a punto di questi farmaci, a molti pazienti con epatite B, il fegato non poteva essere trapiantato per l’alta carica virale che danneggiava il nuovo fegato. Ora il trapianto non presenta più alcun rischio».
Le epatiti virali C e B, quelle che possono cronicizzare, si erano diffuse negli anni Sessanta e Settanta soprattutto con le trasfusioni di sangue, oggi nei Paesi sviluppati il contagio avviene a causa di comportamenti sessuali a rischio.

«Stiamo registrando una recrudescenza di queste forme: 5mila nuovi casi ogni anno. La scarsa prudenza, la superficialità, favoriscono la trasmissione dell’epatite e dell’Hiv. Oggi anche i soggetti colpiti da Hiv, se ben trattati, hanno però una sopravvivenza elevata».

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