L’INDECISIONE AL GOVERNO

Il governo più affollato della storia repubblicana è già diventato un non-governo. Ai tanti partiti della coalizione, si è ora aggiunto quello informale ma pesante dei critici, con Luca Cordero di Montezemolo, con Eugenio Scalfari, con i leader sindacali che tornando finalmente dagli amici di Palazzo Chigi chiedono una smentita sulla manovra previdenziale e la ottengono. Nonostante il conclave umbro e la richiesta di Prodi ai ministri di parlare attraverso i fatti, Cesare Damiano non ha remore nel contrapporsi pubblicamente a Tommaso Padoa-Schioppa e Paolo Ferrero prospetta per i tossicodipendenti la sperimentazione della «stanza del buco». Il tutto mentre addirittura il presidente della Camera Fausto Bertinotti interviene in prima persona contro quello che definisce «il tormentone» sull'Irak, che oscura «il carattere netto della scelta», mentre «il resto è del diavolo». Sì, ha proprio detto «del diavolo». E mentre si sposta sulla missione in Afghanistan il duello tra l'ala antagonista e neutralista dell'alleanza e i suoi residui occidentali.
Altro che la grande bonaccia delle Antille, di calviniana memoria, benevolmente rievocata ieri da Antonio Polito sul Riformista, per lanciare l'allarme sulla «tempesta politica cui la barca del centrosinistra, se non comincia a muoversi, rischierà di non poter sfuggire».
Il tema, ormai sulla lavagna, è quello di una chiassosa paralisi, dell'indecisione scelta come strumento capace di garantire la coesione politica e la stabilità dell'esecutivo. È quello della blindatura parlamentare della maggioranza prima sull'elezione delle cariche istituzionali e ora su un gesto politico simbolico - il disimpegno dall'Irak - e del rinvio di tutto il resto, dell'affidarsi al tempo e alle doti di tessitura del presidente del Consiglio. Il quale, invece, è il grande assente dal dibattito di queste settimane, con la sola eccezione dell'infelice intervista a Die Zeit. Un atteggiamento voluto, addirittura calcolato, secondo benevoli amici. Ma il risultato, raggiunto prima del previsto, è l'apertura di un vuoto di leadership, l'incapacità di iniziare l'azione di governo e di imprimerle un segno. È smentita la profezia con cui il direttore del Corriere della Sera, schierando in campagna elettorale il suo giornale per il centrosinistra, scommise sulla certezza che «la coalizione costruita da Romano Prodi abbia i titoli atti a governare al meglio per i prossimi cinque anni». Invece è successo che, diventata maggioranza, quella coalizione ha dimostrato di non saper che fare.
Siamo già al bivio: la politica economica sarà quella enunciata l'altro giorno da Padoa-Schioppa - la personalità che ha dato credibilità all'Unione - o sarà un'altra? Come avverrà la riduzione del cuneo fiscale, sarà finalizzata all'innovazione e otterrà in cambio la moderazione salariale dei sindacati oppure si sperimenterà il Welfare dell'irresponsabilità? Nelle grandi scelte internazionali, sarà deciso il rafforzamento della missione in Afghanistan - come chiesto da Emma Bonino, l'altra figura che ha dato credibilità all'alleanza - o prevarrà la chiassosa rivendicazione dei «senza se e senza ma», trasferitisi dalle piazze alle stanze dei bottoni? E poi, via via a scendere, non c'è una sola certezza su nulla.
È vero che la storia non si ripete mai. Ma il precedente ci dice che tra il '96 e il '98 Prodi riuscì solo in un'impresa, l'euro.

Il rischio del secondo tentativo è che l'unica impresa, di segno diametralmente opposto, sia la ritirata dall'Irak. Con questo affollato non-governo, che rappresenta l'inedita esperienza dell'indecisione nel nome di tutto il potere.

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